(1861) Corso di mitologia, o, Storia delle divinità e degli eroi del paganesimo: Per la spiegazione dei classici e dei monumenti di belle arti (3e éd.) « Appendice. » pp. -386
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(1861) Corso di mitologia, o, Storia delle divinità e degli eroi del paganesimo: Per la spiegazione dei classici e dei monumenti di belle arti (3e éd.) « Appendice. » pp. -386

Appendice.

Folli Dei sull’Olimpo sedenti
Più la terra ricompra non sogna,
E l’oscena vetusta menzogna
Vuota suona, e concetto non ha.
L. Carrea.
La Poesia dei secoli cristiani.

745. Tale è in succinto la istoria degli errori della idolatria appo i popoli più noti dell’antichità ; istoria vie più tenebrosa per la lontananza dei tempi ai quali appartiene. Intanto questi errori dominarono per molti secoli sopra la faccia della terra, e contaminarono le menti di popoli che pur giunsero ad avere splendida civiltà ; laonde non breve fu la lotta che la verità del Cristianesimo dovè sostenere contro di essi. E appunto per dare un’idea di questa lotta, per far conoscere ai giovani studiosi questa importantissima epoca di transizione tra il Paganesimo ed il Cristianesimo, per somministrare ad essi maggior copia di argomenti a meditare su questo gran fatto, abbiamo, in questa seconda edizione, aggiunto anche, a guisa d’appendice, i seguenti discorsi cavati dalle opere di chiari scrittori. Così lo studio stesso dell’antica Mitologia non sarà sterile di morali e civili insegnamenti.

Il politeismo del primo secolo dell’era cristiana.

746. Quando la luce del Cristianesimo spuntò nell’Asia, i Romani, ch’erano divenuti il popolo dominatore dell’universo, già da lungo tempo vedevano svanire le antiche loro credenze. Il Paganesimo s’era infiacchito a tal segno, che, cessata la fede ne’falsi Iddii, omai per tutto si dubitava persino dell’esistenza d’una natura divina.

Cotesta rivoluzione fu da principio lenta e quasi impercettibile. I dogmi religiosi erano in Roma rafforzati dalla politica, tenuti in pregio come la patria, e osservati come leggi tutelari dello Stato. Il commercio co’Greci tutto cangiò : essi recarono in Roma i loro sistemi di filosofia liberi e svariati ; ed i poeti latini ben presto si fecer lecite strane libertà ne’rozzi lor versi ; Lucillo e Lucrezio si beffarono degli Dei di Roma, e de’ Romani che inchinavansi ai vani simulacri immaginati da Numa, paragonando il loro religioso terrore a quel de’fanciulletti, i quali prendono per uomini vivi tutte le statue che lor vien fatto di vedere. Così crollava l’idolatria dei Romani a misura ch’essi uscivano dalla loro primiera ignoranza ; e cadevano in dispregio quelle divinità fantastiche e capricciose, che agli occhi del politeista popolavano l’universo come altrettanti genj del male coi quali tregua non v’era mai ; e che senza posa prendevansi giuoco della sorte e della vita degli uomini.

Nulladimeno pare che l’Epicureismo,144 speculazione oziosa della Grecia, accolta dalla malefica attività de’Romani, fomentasse tutti i vizj degli oppressori del mondo. Nelle scuole di Atene o di Corinto, un filosofo epicureo, un cinico, un peripatetico disputava ingegnosamente sul vizio, sulla virtù, sull’anima, sugli Dei ; ma tutto ciò non altro era che spiritosa lizza d’ingegno. Ma i patrizj di Roma, sfrenati così nei loro vizj come nel loro potere, trovando la dottrina d’Epicuro tra l’arti della Grecia, ne attinsero un raffinamento di corruzione, di lusso e di crudeltà.

Anche i più insigni personaggi che fecero sì splendido il tramonto di Roma repubblicana, come a dire Cicerone, Cesare, Varrone, Orazio, Augusto e Catone medesimo, per non parlare di molti altri insigni o nell’armi o nelle lettere o nelle magistrature, non aveano più fede nessuna in quella moltitudine d’Iddii a cui il popolo bruciava ancora gl’incensi ; e la religione della classe più illuminata e più potente di Roma non era altro che un brutale epicureismo. Cicerone nel suo libro Sulla natura degli Dei lasciò scritto : « La superstizione sparsa tra i popoli ha oppresso quasi tutte l’anime, ed ha signoreggiato la debolezza umana. Noi siamo convinti, che avremmo fatto il bene de’nostri concittadini e di noi medeaimi, se avessimo estirpato siffatto errore. Tuttavia (poichè su questo proposito voglio che il mio pensiero sia da tutti ben inteso) la caduta della superstizione non è la ruina della religione. È saggia cosa il mantenere le osservanze istituite dai nostri avi nei sacrificj e nelle cerimonie ; e l’esistenza d’una natura eterna, la necessità per l’uomo di riconoscerla e d’adorarla è attestata dalla magnificenza del mondo, e dall’ordine delle cose celesti. Così devesi a un tratto e propagare la religione che s’accompagna alla conoscenza della natura, e sradicare affatto la superstizione. »

Le metamorfosi d’Ovidio, che sono il monumento più completo a noi rimasto dalla mitologia pagana, pajono il trastullo d’una immaginazione poetica che ricrea lettori sbadati e non curanti. Tu non vi trovi scintilla di quell’entusiasmo di buona fede che presso tutte le società nascenti inspira l’uomo di genio, e consegna negli inni sacri le tradizioni degli avi e le antiche superstizioni del paese. Ovidio facea della terra, non solamente il tipo, ma il teatro di tutti i vizj de’suoi Dei ; per modo che si può argomentare, che le credenze del politeismo più non servissero ad altro che a lusingare quegl’intelletti che non poteano persuadere. Cotesto poema dunque è insieme il più ingegnoso commentario del paganesimo ed il segnale più chiaro della sua decadenza.

Il solo Livio rimpiangeva la pietà dei primi Romani per gli antichi loro Dei, ma questa pietà confondevasi allora coll’amor della gloria e della patria. La morte sul campo di battaglia era un olocausto agli Dei ; nè c’era cosa che così profondamente scolpita avesse la religione in quell’anime semplici e bellicose, come il continuato uso degli augurj e degli auspicj. Quelle predizioni di vittoria così spesso avverate riempivano i Romani d’un’orgogliosa superstizione. Le viscere delle vittime, il canto o il volo degli uccelli, tutte quelle minute osservanze che la guerra mai sempre teneva in vigore, davano continuo alimento alla fede dei soldati. Vincitori, credeano negli Dei da cui si sentivano protetti ; vinti, attribuivano i rovesci delle loro armi ad auspicj negletti o mal compresi. Il campo era un tempio, e quanto più la vita guerriera teneva occupati i Romani, tanto più le credenze del politeismo signoreggiavano ne’loro cuori, di cui formavano continuamente o la speranza o lo spavento.

La vita civile de’Romani non era men piena di cerimonie politiche a un tempo e religiose. La convocazione delle assemblee, l’elezione dei magistrati, la forma del voto popolare, tutto infine nell’esercizio della libertà pubblica era preceduto, convalidato, sancito dagli auspicj ; e, se spesso la scaltrezza del senato abusava della loro prevalenza per disciogliere le assemblee, sconcertare o preparare intrighi, la facilità stessa con cui ne veniva a capo, era una prova della superstiziosa credulità del popolo.

Il discredito poi in che venne il politeismo presso i Romani crebbe a dismisura, e si mutò in disprezzo generale, quando un vile ossequio agl’imperatori introdusse l’apoteosi, colla quale vennero annoverati tra gli Dei anche i più scellerati mostri che sedettero sul trono imperiale di Roma. Quindi i Romani, che nella severità dell’antica loro disciplina aveano ammesso il culto degli avi, ma non avevano pubblicamente deificato nè gli Scipioni, nè i Camilli, e restringevano il loro culto ad offerir sacrifici all’ombre dei padri che riputavano domestiche divinità, dovettero arder incensi anche ai più atroci tiranni ; e come sacrileghi e rei di lesa maestà erano giudicati e condannati coloro che avessero mancato alla menoma delle cerimonie dell’apoteosi.

Intanto lo scompiglio de’tempi, le frequenti rivoluzioni dello stato, l’ardente curiosità del popolo di conoscer l’avvenire in cui leggea sempre affrancamento e libertà, l’ambizione dei pretendenti all’imperio, e certa qual frenesia scusabile in quella nazione che avea tutto conquistato, che a tutto era stata avvezza, che tutto avea sofferto, empievano le fantasie di mille strane aberrazioni, e davano pieno potere alla fallace scienza degli astrologi. Questi aveano, a così dire, rubato il mestiero agli oracoli ed agli auspicj caduti in disuso ; e la magia s’era arricchita della ruina del paganesimo.

Nel resto del mondo soggetto al dominio romano, l’istinto religioso non era men profanato, sebbene la civiltà romana avesse in alcun luogo reso il culto pubblico meno crudele. Nelle Gallie e nell’Affrica più non si offrivano agli Dei vittime umane. La sola Germania, nelle parti che ancor resistevano alle armi romane, conservava i suoi culti sanguinarj ; nè conosceva libazioni più grate agli Dei di quelle fatte col sangue dei prigionieri romani. I sacerdoti godevano di grande autorità presso le nazioni germaniche, che aveano pure in grande riverenza le profetesso scelte tra le vergini consacrate ; e i nomi d’Angaria e di Velleda, deificate dalla superstizione de’Germani, più d’una volta avevano spaventato la fortuna di Roma.

Il politeismo era ancora in fiore, più che altrove, nella Grecia, qualora se ne giudichi dalle statue, dai tempj, dai monumenti consacrati alla religione. Nell’avvilimento della conquista, nell’inerzia che la seguiva, il culto degli Dei pareva la più grande faccenda politica de’ Greci. I vecchi odj tra le città rivali erano sepolti sottò il comune servaggio ; ma disputavasi ancora pel possesso di un tempio, o d’un terreno consacrato. Pare che la Grecia non potesse abbandonare l’idolatria nella stessa guisa che non poteva ripudiare le arti. Sparsa dappertutto di monumenti e di tradizioni, ell’era come il Panteon dell’universo pagano, nè vi si potea muover passo senza abbattersi in qualche capolavoro delle arti, posto a consacrare una tradizione religiosa. Ma l’incredulità s’era già da molto tempo intrusa fra i sacerdoti, ed avea fatto grande avanzamento per cagione delle sventure del paese. Più non sorgevano tribune per gli oratori ; ma i sofisti più liberamente poteano beffarsi del culto degli Dei. Le antiche sètte filosofiche tuttor fiorivano, ma l’epicurea e la cinica erano le più possenti e più popolari : e queste poneano in derisione ad un tempo e l’antica religione e l’antica filosofia.

L’Asia minore offriva in ogni sua parte la mescolanza degli Dei eleganti della Grecia colle superstizioni del paese. Tu v’incontravi ad ogni piè sospinto schiere di sacerdoti erranti, che si recavano sul dorso un fardello di divinità impure, e passavano per astrologi e giocolieri.

Ma il paese, ove pareva che la superstizione si rinverdisse con fecondità straordinaria, era l’Egitto. L’antica religione del paese, il politeismo greco, il culto romano, le filosofie orientali erano riunite e confuse come gli strati del fango che il Nilo straripato ammucchia sulle sue sponde. Nel riposo della conquista romana gl’intelletti non aveano altra occupazione che le controversie religiose e filosofiche. Alessandria, città di commercio, di scienza e di piaceri, visitata da tutti i navigatori d’Europa e d’Asia, co’suoi monumenti, con la sua vasta biblioteca, con le sue scuole, parea l’Atene dell’Oriente, più ricca, più popolosa, più feconda di vane dispute che non la vera Atene ; ma priva di quella saggezza d’immaginazione e di quel gusto squisito nelle arti che formava la gloria di questa, Alessandria era piuttosto la Babele dell’erudizione profana. Il resto dell’Egitto correva dietro a mille superstizioni assurde o malintese, che faceano sorridere di compassione il paganesimo romano. Gli Egizj avevano sotto ogni guisa di simboli raffigurate le loro divinità : di qui ne venne la tradizione che essi adorassero le cipolle ed i gatti, e che s’armassero città contro città per vendicare le ingiurie fatte ad alcuna di queste innumerabili divinità.

Gl’Indi giacevano sotto il giogo del loro antico sacerdozio, e nell’immobilità delle loro caste ereditarie. Le comunicazioni che aveano avuto da tempo immemorabile coll’Europa, e le cui tracce, smarrite nella storia, si rinvengono così manifeste nell’antica lingua della Grecia e del Lazio,145 s’erano ravvivate colla conquista d’Alessandro. Attraversata dagli eserciti macedoni, l’India avea dischiusi i suoi tesori all’avidità dell’Occidente ; era il nuovo mondo di quell’epoca, e vi s’accorreva dalla Grecia e da altre parti dell’universo, e se ne narravano le cento maraviglie.

Pare che la Persia, dai Greci chiamata barbara, avesse avuto nei tempi più remoti un culto più ragionevole e più puro del politeismo d’Europa. Non ammetteva idoli ; ed il suo culto, cioè quello di Zoroastro, era un’adorazione dell’Essere eterno rappresentato sotto il simbolo del fuoco. I Magi, che ne erano i sacerdoti, all’epoca dell’invasione d’Alessandro, furono perseguitati, e si spartirono in numerose sètte ; il loro culto diventò un rito solitario e nascosto che si smarrì in vane superstizioni ; e questa religione così semplice produsse dipoi quell’impostura che portava il nome di magia in tutto l’Oriente, e che si sparse tra i Romani degenerati.

L’Armenia e la Cappadocia aveano anch’esse adottato il culto dei Magi. In Armenia segnatamente veneravasi il culto di Mitra, i cui misteri erano celebri nei primi tempi del Cristianesimo, e s’assomigliavano in parte alle cerimonie di questa legge santa. Dominava soprattutto in questi paesi la tradizione dei due genj del bene e del male.

Ci rimane a parlare di quel popolo nato a mutar gli altri tutti, mentre egli solo dovea durare immutabile, e che, già sparso quasi per l’intero universo, non avea partecipato del generale traviamento, e solo tra tutti i popoli chiudeva il proprio tempio all’idolatria. I disastri della guerra, la schiavitù, il commercio avean cominciato la dispersione de’ Giudei e diffuso nel mondo le pagine dei loro libri sacri. Dal tempo di Ciro gli Ebrei s’erano qua e là dispersi nella Siria, nella Persia e fino nell’India ; dopo Alessandro trovavansi in gran numero nelle province dell’Asia minore e dell’Egitto ; sotto Pompeo penetrarono nell’Italia, e in tutte le parti dell’imperio. Contavansi tra’Giudei tre sètte distinte, i Farisei, i Saducei e gli Essenj ; ma nel mentre che i Romani vennero a cinger d’assedio Gerusalemme, queste sètte si fusero in quella degli Zelanti, cioè di coloro che voleano scacciare i Romani o perire sotto le ruine del tempio. Di qui l’accanimento di quella guerra spaventevole che fece terrore ai Romani medesimi, e diè loro per la prima volta a combattere il fanatismo religioso. Questi Giudei, sì spregiati a Roma e nel resto dell’impero, merciajuoli, mercadanti, astrologi, usurai, pasciuti per tutto d’insulti, fecero sul suolo della loro patria una eroica resistenza. L’assedio di Gerusalemme fu più orrendo ancora che quello di Cartagine, e così nell’uno come nell’altro un vincitore, spesso generoso, fu lo stromento della più barbara distruzione.

Singolar cosa ! l’eccidio di Gerusalemme parve la vittoria del politeismo sopra il culto d’un solo Dio. Il tempio fu consunto dalle fiamme ; Tito, tornato a Roma, si fece portare dinanzi nel suo trionfo i vasi sacri, il velo del santuario e il libro della legge ; la nazione giudaica sparì, e le sue ceneri furono, per così dire, gettate come polvere al vento nell’universo intero. Non ostante questi mucchi di rovine non soffocarono la novella credenza che usciva dalla Giudea ; anzi ella vide in questo esterminio una prova della sua verità ; e Roma, dopo aver distrutto una nazione stanziata in un angolo dell’Asia, ebbe a combattere con una religione universale.

Il mondo romano, travolto in mille stranezze da’suoi vizj, dai suoi lumi stessi, dall’avvilimento di tutti i culti, dal fascino del commercio, delle sofisticherie e delle immaginazioni orientali, dalle comunicazioni rese più facili fra i varj popoli, dal contrasto o dalla confusione delle loro credenze, andava sfasciandosi da tutte parti, o, a dir meglio, si maturava per un grande mutamento. Ma gli uomini non avean forza da ciò. Essi commentavano le antiche favole in vece di prestarvi fede ; logoravano il vecchio paganesimo per ringiovanirlo ; non facevano altro che rimescolare il caos delle opinioni senza rinvenire una credenza che potesse rialzare l’intelletto dell’ uomo e affratellare tra loro le nazioni. Il Cristianesimo solo fu da tanto : esso profittò dell’ordine e della pace fiorenti nell’impero per ispargersi con incredibile rapidità ; e marciò, per così dire, a grandi giornate su quelle vaste strade che la politica romana avea aperto da un capo all’altro dell’impero pel passaggio delle legioni. Lusingò tutte le inclinazioni che l’odio del giogo romano nodriva nel cuore dei popoli soggetti ; rialzò coll’entusiasmo le anime abbattute dall’oppressione ; e parlando in nome dell’umanità, della giustizia, dell’eguaglianza primitiva tra gli uomini, ben presto trasse intorno a sè tutti gli schiavi e gli oppressi, che è quanto dire l’universo.

Nulla di meno quanti ostacoli s’opponevano alla promulgazione d’un nuovo culto ! In tutti gli angoli dell’universo, qualche antico rito, qualche superstizione locale conservava tutto il suo potere : intieri popoli erano ingolfati nella più crassa ignoranza, e troppo erano istupiditi per poter diffidare d’alcuna impostura che tuttavia mirasse a tenerli soggetti. Altri s’accomodavano ad un culto senza doveri, e ad una vita piena di passioni e di godimenti : il vecchio politeismo formava ancora la base della società romana : i suoi templi e i suoi idoli erano per tutto innanzi agli sguardi ; i suoi poeti signoreggiavano la serva fantasia. Le sue feste erano lo spettacolo della folla ; esso frammettevasi a tutto come un’usanza o come un sollazzo ; brillava sulle insegne delle legioni ; ornava le nozze e i funerali. Più tardi insanguinò i circhi e i teatri : avea sopravvissuto pur anco all’incredulità che fomentava ; era divenuto una specie d’ipocrisia pubblica professata dallo Stato ; e nella sua decadenza, sorretto dal potere, dall’interesse, dall’abitudine, parea fatto per durare quanto l’impero medesimo.

Villemain.

Prima lotta fra il politeismo ed il cristianesimo.

747. Allorchè il Cristianesimo apparve sulla terra, il genere umano più non vivea, per così dire, che pei sensi. Il culto, simbolo vano, non era più da veruna credenza rafforzato, e conservavasi per consuetudine a cagione delle sue pompe e delle sue feste. e soprattutto de’ suoi legami colle istituzioni dello Stato. Ma la religione in sè medesima più non ispirava nè fede nè riverenza. I sapienti ed i grandi disdegnosamente la confinavano tra la plebe, la quale, meno corrotta forse, volea che i vizj, a cui rendeva ossequio sotto finti nomi, avessero almanco nei loro emblemi alcun che di divino. All’ultimo altra religione non eravi in fatto che la voluttà ; e le sette più severe nella loro origine, degenerate fra breve da un’austerità presa ad imprestito, per opera d’un sovvertimento d’idee, onde fu guasto il linguaggio medesimo, a questo eran giunte di fare una cosa sola della virtù e del piacere.

Da queste semplici osservazioni si può giudicare della buona fede di quegli scrittori che hanno sostenuto essersi il Cristianesimo stabilito naturalmente e senza ostacoli. E di vero esso non ebbe a lottare se non colle passioni, gl’interessi e le opinioni dominanti in tutto l’universo I Armato d’una croce di legno, fu veduto a un tratto avanzarsi in mezzo ai pazzi tripudj ed alle sguajate religioni d’un mondo invecchiato nella corruzione. Alle splendide feste del Paganesimo, alle seducenti immagini d’una vaga mitologia, alla comoda licenza della morale filosofica, a tutti gli adescamenti delle arti e dei piaceri, oppone le pompe del dolore : oppone riti gravi e lugubri, le lagrime della penitenza, le minacce del terrore, l’arcano dei misteri, il tristo séguito della povertà, il cilicio, la cenere e tutti i simboli d’una deplorabile miseria, d’una profonda costernazione ; chè quest’è appunto quello che il mondo pagano ravvisò sulle prime nel Cristianesimo. Ed ecco le passioni irrompono furibonde contro il nemico che si presenta a disputar loro l’impero dell’universo ; e i popoli, a torme a torme, come le onde d’un mar tempestoso, traggono sotto le loro bandiere : l’avarizia vi guida i sacerdoti degli idoli : la superbia vi conduce i sapienti, e la politica gl’imperatori. Allora comincia una guerra sterminatrice : non si perdona nè a sesso nè ad età ; le pubbliche piazze, le vie, le campagne, e persino i luoghi più deserti, si coprono di stromenti da tortura, di eculei, di roghi ; i giuochi si frammettono al macello ; da tutte parti s’accorre a goder dello spettacolo dell’agonia e della morte degli innocenti sgozzati ; e il barbaro grido : I Cristiani alle fiere, fa fremer di gioja una moltitudine ebbra di sangue. Finalmente, i carnefici stanchi s’arrestano, la scure sfugge loro di mano, e un’arcana virtù celestc, scaturita dalla croce, comincia a commuovere anche questi feroci. Vinti dall’esempio di nazioni intiere soggiogate prima di loro, cadono pur essi a piè del Cristianesimo, che in premio del pentimento lor promette l’immortalità, e già fa lor copia della speranza.

La croce, sacro segno di pace e di salute, sventola da lontano sulle rovine del Pagancsimo abbattuto. I Cesari gelosi avean giurato la rovina del Cristianesimo, ed eccolo assiso sul trono de’ Cesari. Come ha vinto sì gran possanza ? Offrendo il petto alla spada e ai ceppi le mani inermi. Come ha trionfato di tanta rabbia ? Dandosi mansueto in balia dei suoi persecutori.

Lamennais.

Difesa de’ cristiani.

(Al tempo dell’imperator Severo, essendo perseguitati i Cristiani per lo solo odio in che avevano i Gentili il nome cristiano, Tertulliano Cecilio cartaginese, presentò ai governatori dell’impero romano una scrittura in loro difesa, che intitolò : Apologetico contro cl’ Idolatri. Da essa sono tratti i due brani che seguono.)

748. Se non è lecito a voi, o presidenti dell’impero romano, che, quasi nel più alto e cospicuo soglio, anzi quasi nella cima stessa della città,146 a giudicare assistete, il considerare alla scoperta e pubblicamente esaminare ciò che di chiaro si trovi nella causa de’ Cristiani che a condannare quelli v’astringa ; se in questo solo la vostra autorità teme o si vergogna di scrutinare in palese le ragioni del suo procedere per dare il diritto alla giustizia, mentre per avere pur troppo, come ultimamente è accaduto, nelle domestiche sentenze operato per la sola inimicizia che avete con questa setta, è stato precluso il sentiero alla sua difesa ; sia lecito almeno alla verità per la tacita via delle lettere di pervenire alle vostre orecchie. Questa invero per la sua causa non vi prega, perchè nemmeno della sua sorte si maraviglia, mentre, sapendo d’esser peregrina in terra, non ignora che ritrova fra gli estranei facilmente i nemici ; ma essendole noto che la sua stirpe, la fede, la speranza, la grazia e la dignità tiene dal Cielo, solo alle volte s’adopra, acciocchè, senza esser conosciuta, non resti condannata. Che cosa ne anderà alle leggi che sono in vigore nel regno, se essa è udita ? Forse si glorierà maggiormente la potestà di quelle, perchè esse condanneranno la verità senza ascoltarla ? Ma se la condanneranno senza udirla, oltre al biasimo d’iniquità, meriteranno il sospetto di non retta coscienza, non volendo saper quello che, saputo, non potrebbero poi condannare. Laonde vi opporremo, per prima causa della vostra poca equità, l’odio che portate ai Cristiani.

Ed in vero una tale sorta di poca equità, dal titolo medesimo, che è l’ignoranza, onde sembra che scusata sia, vien caricata e convinta ; poichè qual cosa è più di lungi dall’equità, quanto che gli uomini abbiano in odio ciò che non sanno se in fatti merita l’odio loro ? Poichè dir si può che lo merita, quando la cagione di meritarlo è palese. Non vi essendo dunque la notizia di tal merito, come si potrà difendere la giustizia d’un simil odio, la quale si dee provare non dall’odiare, ma dal sapere perchè si deve odiare ? Onde, essendo che gli uomini odiano senza che ad essi noto sia che cosa sia quella che hanno in odio, non può egli essere che essi medesimi odiino ciò che non debbono ? Così da ogni parte restan convinti, o mentre ignorano quello che odiano, o mentre odiano ingiustamente quello che ignorano ; e questo è il testimonio della ignoranza, la quale, mentre scusa la poca equità, la condanna. Poichè tutti coloro che per lo passato odiarono, non sapendo ciò che fosse lo scopo dell’odio loro, subito che abbandonarono l’ignoranza, parimente cessarono d’odiare. Di questa sorta di gente si fanno i Cristiani,147 cioè di quelli che, deposta l’ignoranza con l’informarsi, incominciano ad odiare quello che furono e professare quello che odiarono : e son tanti quanti vedete che noi siamo. Vociferano che la città è assediata e circondata ; e che nei campi e nell’isole e ne’ castelli ogni sesso, ogni condizione, ogni età, ogni grado a questa setta se ne passi ; e se ne attristano come d’un grave danno ; e ad ogni modo, questo vedendo, non si fanno a considerare, se questo mai fosse un bene occulto, non essendo loro lecito di sospettare più rettamente e più da vicino scrutinare. Qui solo la curiosità umana s’impigrisce : amano d’ignorare mentre gli altri godono di sapere. Non vogliono informarsi, perchè sono impegnati a odiare ; però quel che non sanno giudicano alla cieca esser tale, che, se lo conoscessero, non lo potrebbero non odiare, dove che, non trovando motivo d’odiare, ottima cosa è cessar d’odiare a torto. Se poi la ragione d’odiare è palese, allora niente si diminuisca quest’odio, ma più s’accresca e si perseveri in esso, operandosi così coll’ autorità della giustizia medesima. Dicono però costoro : Non è buona cosa, perchè questa setta molti tira al suo partito, mentre quanti sono gli scellerati, quanti quelli che dal retto sentiero traviano ! E chi lo nega ? Contuttociò quello che è veramente male, neppure da que’ medesimi che da esso travolti sono, per cosa buona è difeso. La natura ogni opera biasimevole fa che sia accompagnata dal timore e dal rossore di chi la commette. Finalmente gli uomini cattivi si affaticano di nascondersi, e s’ingegnano di non apparire quel che e’sono. Sorpresi, tremano ; accusati, negano ; e tormentati, non sempre confessano con facilità ; condannati, s’attristano, si scolpano, e accusano gl’impeti d’una non ben disciplinata inclinazione, il destino e le stelle, e non vogliono che sia suo quello che riconoscono per male.

Ma qual somiglianza hanno costoro co’ Cristiani ? Di questo alcuno non si vergogna, alcuno non si pente, se non di non essere stato per lo passato Cristiano. Se è biasimato, si gloria ; se è accusato, non si difende ; interrogato, anche alle volte spontaneamente confessa ; condannato, ringrazia. Or che sorta di male si dirà mai questo, nel qual non si trova la natura del male ? Cioè nè timore, nè vergogna, nè tergiversazione, nè penitenza, nè doglianza ? Che sorta di male, dico, del quale il reo si allegra, l’accusa del quale si brama, la pena del quale per felicità si considera ? Non puoi dire che sia pazzia, perchè sei convinto di non giungere a tale cognizione.

Pure se noi siamo colpevoli, perchè non ci trattate da pari nostri, cioè come gli altri colpevoli ? Al delitto istesso conviene l’istesso trattamento. Noi siamo creduti rei come gli altri : ma essi o della propria bocca, o di mercenarj difensori si servono per provare l’innocenza loro. Possono rispondere ed altercare, non essendo lecito che senza punto esser uditi e difesi siano condannati. Ma ai soli Cristiani non è permesso di fiatare, onde si purghi la causa e si difenda la verità, perchè il giudice non sia ingiusto. Solo si attende quello che è lo scopo del pubblico odio, cioè la confessione del nome e non l’esame del delitto. Se si tratta d’altro reo, al solo nome d’omicida, di sacrilego o di pubblico inimico (acciocchè io parli degli elogi di che voi ci favorite), non date sentenza, ma richiedete e ricercate le circostanze convenevoli, la qualità del fatto, il numero, il luogo, il tempo, i complici ed i compagni. Con noi poi non fate così ; ancorchè bisognerebbe pure chiarirsi di quello che falsamente si va di noi vociferando, cioè quanti infanticidj148 fatti abbiamo per imbandire i conviti, e quanti altri delitti tra le tenebre si sian commessi ; quali siano stati i cuochi ed i cani assistenti.149 Qual gloria sarebbe di quel presidente, se potesse venire in chiaro che alcuno avesse divorato cento infanti ! Ma certamente anche il cercare a nostro danno è proibito. Imperciocchè Plinio Secondo, mentre reggeva la sua provincia, condannati alcuni Cristiani, alcuni dal suo posto rimossi, turbato alfine per tanta moltitudine, scrisse a Trajano, allora imperatore, che, fuori dell’ostinazione di non voler sacrificare agl’idoli, niente altro aveva delle loro cerimonie scoperto, cho alcune adunanze avanti giorno tra loro praticate per cantare inni a Gesù Cristo, come a Dio, e per confermar il loro istituto che proibiva l’omicidio, la fraude, la perfidia e l’altre scelleraggini. Rescrisse allora Trajano che genti di tal sorta non si dovevano cercare, ma, denunziate, di punirle era d’uopo. Oh sentenza confusa dalla necessità ! Nega cho si debbano ricercare come innocenti, e comanda che si puniscano come rei ! Perdona e incrudelisce ! dissimula e condanna !…

Quante volte contra i Cristiani incrudelite, parte di vostro volere, parte per obbedire alle leggi ! Quante volte, senza riguardo a voi, di sua autorità l’inimico volgo ci assale colle pietre e cogl’incendj ! Nelle furie dei baccanali non si perdona neppure ai Cristiani già defunti : anzi quegli estraggono dal riposo del sepolcro, dall’asilo sicuro della morte, già divenuti un’altra cosa e non interi, e li lacerano, e li dispergono. Contuttociò di questi, per altro intrepidi, così da voi trattati, quali offese potete contare ? Da questi cotanto uniti e disposti fino al morire, per questa ingiuria come vi è corrisposto, quando anche una sola notte con poche facelle potrebbe aprir la strada ad una larga vendetta, se fosse lecito a noi ricompensare il male col male ? Ma non fia mai che una setta, che ha del divino, con fuoco umano vendichi i suoi torti, e che si dolga di soffrire quel male, il quale fa prova della sua virtù. Che, se noi volessimo farla da nemici scoperti, non da occulti vendicatori, ci mancherebbe egli la forza della moltitudine e degli armati ? Son forse in maggior numero i Mauri, i Marcomani, gli stessi Parti, o l’altre genti qualunque siano, purchè d’un sol luogo e dei suoi confini, che le genti d’un mondo intero ? Noi siamo di jeri, e pur abbiamo ripieno tutte le case vostre, le città, l’isole, i castelli, tutti i luoghi di vostra dipendenza, le congreghe, gli eserciti stessi, le tribù e le decurie, il palazzo, il senato, il fòro. Solamente vi abbiamo lasciato i templi. A qual guerra non saremmo idonei e pronti, anche ineguali di numero, noi che tanto volentieri ci lasciamo trucidare ? Se non che, secondo la dottrina nostra, si stima più lecito l’essere ucciso che l’uccidere. È stato in nostro potere, disarmati e non ribelli, ma solamente separandoci da voi altri, il combatter contra di voi ; mentre, se tanta moltitudine d’uomini si fosse distaccata da voi e ritirata in qualche remoto angolo del mondo, certamente avrebbe la perdita di tanti cittadini, qualunque noi siamo, svergognato il vostro impero ; anzi collo stesso abbandonarlo l’avrebbe punito. Senza dubbio vi sareste atterriti per la vostra solitudine, per lo silenzio delle cose, per un certo stupore del mondo ; e quasi avreste cercato a chi comandare. Sarebbero a voi rimasi più nemici che cittadini. Di presente avete meno nemici per la moltitudine dei Cristiani quasi tutti vostri cittadini, anzi quasi cittadini di tutte le città. Ma voi piuttosto avete voluto chiamarli nemici del genere umano. Chi di voi però da quegli occulti nemici che devastano per ogni parte la vostra mente e la salute, vi scamperebbe dalle invasioni, io dico, dei demonj, i quali noi senza premio e senza mercede da voi cacciamo ? Sarebbe alla nostra vendetta bastato lasciare agl’ immondi spiriti libero il possesso di voi. Nondimeno, non riflettendo alla ricompensa di tanto ajuto a voi prestato, noi che siamo un genere di persone non solo a voi non molesto, ma necessario, avete voluto stimare nemici, mentre che siamo certo nemici non del genere umano, ma bensì dell’umano errore….

Ma proseguite pure, buoni presidenti, che sarete più accetti appresso il popolo, se a lui sagrificate i Cristiani ; tormentateci, straziateci, condannateci, riduceteci in polvere. La vostra iniquità è la prova della nostra innocenza. Perciò Iddio permette che soffriamo queste cose. Non però qualunque vostra crudeltà molto vi giova, servendo per allettamento ad abbracciare la nostra religione, che tanto più germoglia, quanto più da voi si miete, essendo il sangue de’ Cristiani una sorta di semenza. Molti appresso di voi esortano alla tolleranza del dolore e della morte, come Cicerone nelle Tuscolane e Seneca, come Diogene e Pirrone. Non però trovano tanti discepoli le loro parole, quanti ne trovano i Cristiani, insegnando con le opere. Quella ostinazione stessa, che voi calunniate, n’è la maestra, mentre, e chi mai, ciò considerando, non è sospinto a ricercare che cosa infatti ella intrinsecamente sia ? Ma chi è che, dopo averne ricercato, a noi non s’unisca, ed unito non brami di patire per acquistare intera la divina grazia e per ottenere il perdono col prezzo del proprio sangue ? Perciocchè dal martirio sono cancellati tutti i delitti. Onde avviene che parimenti ringraziamo le vostre sentenze, mentre al contrario di quello che s’opera dagli uomini, s’opera da Dio ; poichè quando siamo da voi condannati, siamo assoluti da Dio.

Costumanze de’cristiani contrapposte a quelle de’gentili.

749. Siamo un corpo unito dalla religione, e da una dottrina divina, e da una confederazione piena di speranza. Siamo soliti di congregarci, acciocchè, orando avanti a Dio, quasi, per dir così, fatto uno squadrone, l’assediamo colle preghiere. Questa violenza però è grata a Dio. Preghiamo anco per l’imperadore, per i ministri suoi, per le potestà secolari, per la quiete delle cose, per lo ritardamento della fine del mondo.150 Ci uniamo per rammemorare le divine Scritture : chè la qualità de’presenti tempi ci necessita ad insegnare e a riconoscere la verità. Nutriamo la fede con le sante cantilene, innalziamo la speranza, stabiliamo la fudicia, e nondimeno, anche con reiterati ricordi, inculchiamo la dottrina de’maestri. Ivi parimenti si fanno esortazioni, si gastiga, e si corregge da parte di Dio ; poichè quivi si giudica, ma con gran riguardo, come certi della presenza di esso. Talchè è un gran contrassegno della futura dannazione per colui che in tal modo pecca, che si venga a relegarlo dalla comunione dell’orazioni, e da queste adunanze, e da ogni santo commercio. Presiedono alcuni buoni uomini, i più vecchi,151 i quali non con prezzo alcuno, ma per pubblica approvazione hanno acquistato tale onore, perciocchè le cose di Dio non hanno prezzo ; e se pure abbiamo una sorta di cassetta, non è di disonore il danaro che vi si raccoglie, quasi che si compri la religione ; mentre in un giorno del mese ciascuno vi pone qualche danaro, quanto gli piace, o se gli piace, o quando ei può ; poichè niuno è costretto, ma lo dà di proprio volere. E questi sono depositi di carità ; poichè quel danaro non s’impiega in conviti, o in isbevazzare, nè in odiosi mangiari ; ma bensì serve per nutrire i mendichi e per seppellirli, per le fanciulle e per i fanciulli privi di averi e di genitori, per i vecchi domestici e per gl’inabili, per i naufraghi, e per ehi è condannato alle miniere de’metalli, o nell’isole, e nelle prigioni, solamente per la confessione della divina religione che professano. Tutte queste opere, e sopra ogni cosa la carità che è tra noi, ci rende appresso alcuni degni di biasimo. Vedi, dicono, come scambievolmente s’amano ! (poichè eglino scambievolmente s’odiano). C’infamano, perchè ci stimiamo tra noi fratelli, non per altra ragione, mi persuado, se non perchè appresso di loro ogni nome di parentela è finto per affettazione. Siamo ancora vostri fratelli per diritto di natura, madre comune, benchè voi siate poco uomini, perchè siete cattivi fratelli. Ma quanto più degnamente si chiamano e stimano fratelli coloro che hanno conosciuto Dio per unico loro padre, e si sono imbevuti d’un solo spirito di santità, e, dall’unico seno della medesima ignoranza usciti, sono restati abbarbagliati da una stessa luce di verità ! Ma forse tanto meno siamo reputati legittimi, o perchè non vi è tragedia che faccia strepito della nostra fratellanza, o perchè siamo fratelli rispetto a’nostri beni e alla nostra roba, la quale appresso di voi quasi rompe la fratellanza. Noi però, perchè abbiamo un volere e un cuor solo, non abbiam difficoltà ad accomunare gli averi, laonde tra noi tutto è indiviso fuori che la moglie….

Che maraviglia, se con tanta carità da noi si fanno de’conviti ? Anche le nostre povere cene, oltre ad averle infamate per iscellerate, da voi son tacciate di prodighe. Veramente a noi calza quel detto di Diogene : I Megarensi mangiano come se dovessero morire il giorno dopo, e fabbricano come se non dovessero morir mai ! Ma si vede la festuca negli occhi altrui, e non si vede nei suoi la trave. Tante tribù, tante curie e decurie infettano l’aria cogli aliti puzzolenti del loro stomaco. Per le cene de’Salj vi è necessità d’indebitarsi. I computisti soli possono calcolare le spese di coloro, che gettano nelle crapule il loro avere nell’occasione di pagare le decime ad Ercole. Nel celebrare i misteri di Bacco secondo l’antica usanza fa d’uopo d’arrolare una legione di cuochi. Le guardie del fuoco stan vigilanti al gran fumo delle serapiche cene.152 Nondimeno solamente del modesto convito dei Cristiani si mormora. E pure la nostra cena col proprio vocabolo rende buon conto di sè ; perciocchè è detta Agape, che appresso i Greci suona quello che suona carità appresso di noi, talchè sia di qualunque dispendio, è da reputarsi guadagno, mentre si spende per la pietà : poichè certamente con questo sollievo ajutiamo anche i mendichi, non per la vanagloria di renderci schiavi gli uomini liberi, come appresso di voi succede, arrolandosi i parassiti anche a ricevere ingiurie per ingrassare il ventre, ma perchè appresso a Dio è in gran conto la considerazione che si ha delle persone bisognose. Laonde, si la causa del convito è onesta, argomentatene l’ordine rimanente esserne secondo che l’obbligo della religione ci prescrive. Non ci ha luogo nè la viltà, nè l’immodestia. Non ci mettiamo a tavola prima d’aver fatto a Dio un poco d’orazione. Uno si ciba quanto basta per sedare alquanto la fame : si beve quanto giova ad uomini pudichi ; onde si satollano in maniera da non si scordare di dovere nella notte levarsi ad adorare Dio. Discorrono in quella guisa che discorre chi sa che il suo Signore l’ascolta ; poichè, data l’acqua alle mani, e posti i lumi, e invitato ciascuno a cantare al Signore o qualche cosa delle divine Scritture, o di proprio genio ; quindi si prova come veramente abbia bevuto. Parimente l’orazione scioglie il convito, di dove s’esce di poi, non per andar tra le truppe di coloro che fanno alle coltellate, nè tra le schiere di chi va gridando a far delle insolenze o delle disonestà ;153 ma bensì ad attendere alla cura medesima della modestia e della pudicizia, come quelli che nella cena non cibarono solo il corpo di vivande ; ma l’animo ancora di santi ricordi. Or questa è l’adunanza de’Cristiani, la quale dire si può illecita, se si rassomiglia ai ridotti illeciti, ed è con giustizia condannabile, se alcuno di quella si duole per la ragione stessa onde della fazioni suol darsi querela. In danno di chi ci aduniamo mai ? Congregati, siamo gli stessi che siamo disuniti, ed in comune siamo gli stessi che soli : nessuno da noi s’offende, nessuno da noi si contrista. Quando i giusti, i buoni, i pii, i casti insieme s’adunano, non si dee chiamare fazione. ma adunanza, dove del ben comune si tiene consiglio….

Con un altro titolo ingiurioso noi siamo accusati, cioè come inutili per ogni affare. In che modo di questo ci fate rei, che pure con voi viviamo, che abbiamo il vitto ed il vestire stesso e le medesime necessità della vita ? Perciocchè nè siamo Bracmani, nè Ginnosofisti degl’Indi, abitatori delle selve, o staccati dalla vita comune. Abbiamo in mente quanto siamo tenuti a Dio, al Signore e Creatore nostro. Non rigettiamo alcun frutto delle sue opere. Bene è vero che siamo temperanti, per non servircene smoderatamente e fuori di regola ; onde non si vive da noi nel secolo senza il fòro, senza il macello, senza i bagni, senza botteghe, senza officine, senza alberghi e mercati, e senza gli altri commerci bisognevoli. Navighiamo anche noi in vostro compagnia, militiamo e coltiviamo, e mercanteggiamo insieme. Le arti e le opere nostre accomuniamo al vostro uso. Io non so in che maniera vi sembriamo infruttuosi ne’vostri negozj, co’quali e de’quali viviamo. Ma, se non frequento le tue cerimonie, contuttociò anche in quel giorno son uomo. Non mi bagno avanti giorno nelle feste di Saturno per non perdere la notte e il di Contuttociò all’ora debita e giovevole mi bagno per conservarmi il calore ed il sangue. Intirizzire ed impallire dopo la lavanda, posso farlo ancor dopo morte.154. Non mi metto a mensa pubblicamente ne’giuochi di Bacco, perchè è costume de’combattenti con le fiere, che cenano per l’ultima volta. Tuttavia, quando io ceno, compro le roba da voi altri. Quando però mi cibo, non compro la corona pel mio capo ; ma, comprando non ostante i fiori, che importa a te del come io me ne serva ?155 Sembrano a me i fiori più vaghi, mentre son liberi o sciolti, e vaganti per ogni parte, che non se sono ristretti in corona : noi godiamo delle corone solo colle narici. Il facciano coloro che fiutano i fiori per mezzo de’capelli. Non veniamo negli spettacoli ; ma ciò che in quelle adunanze si vende, se da me sarà bramato, con maggior libertà lo prenderò dalle proprie botteghe. Non compriamo incensi ; e se l’Arabia si lamenta, sanno i Sabei che le loro merci hanno più spaccio presso di noi, e migliore, servendocene per dar sepoltura ai Cristiani, non per affumicare gli Dei.156 Certo voi dite : Calano di giorno in giorno l’entrate de’templi. E chi omai vi getta più un quattrino di limosina ? Ma noi però non siamo bastanti a riparare agli nomini e a’vostri Dei mendicanti ; nè crediamo di dover dare la limosina, se non a chi la chiede. Del rimanente, se la vuole, porga Giove la mano, e prenda la limosina ; essendo che frattanto la nostra misericordia più spende per le strade, che la vostra religione per i templi. Le altre imposte ringraziano i Cristiani per la fedeltà con cui sono pagate puntualmente, essendo noi lontani dal defraudare quel d’altrui. Talchè, se si considera quanto si perde per la frode e per la bugia delle vostre professioni, si farà facilmente il conto, che la querela che ci fate in ordine ad una sola spezie di cose, vien compensata dal comodo degli altri dazj che da noi medesimi ricavate con tutta esattezza.

Tertulliano.
(Traduz, di Maria Selvaggia Borghini.)

Qual sarebbe al presente lo stato della società se il cristianesimo non fosse comparso nel mondo.

750. È probabilissima cosa che, senza il Cristianesimo, il naufragio della società e delle scienze sarebbe stato compiuto. Non può calcolarsi quanti secoli sarebbero bisognati al genere umano per uscire da quella ignoranza e da quella corrotta barbarie, nelle quali si sarebbe trovato sepolto. Non ci volea meno che una moltitudine immensa di solitari sparsi nelle tre parti del mondo, e tutti diretti al conseguimento di un medesimo fine, per conservare almeno quelle scintille che riaccesero presso i moderni la face delle scienze. Nessun ordine politico, filosofico, o religioso del Paganesimo, avrebbe potuto operare questo effetto d’inestimabile pregio, se fosse mancata la religione cristiana. Gli scritti degli antichi, trovandosi dispersi nei monasterj, salvaronsi in parte delle rapine dei Goti. Finalmente il Politeismo non era punto, com’è il Cristianesimo, una specie di religione letterata (se così possiam dire), perchè non congiungeva coi dogmi religiosi la metafisica e la morale. La necessità in cui si trovarono i sacerdoti cristiani di pubblicare dei libri, o vuoi per propagare la fede, o vuoi per combattere l’eresia, servi possentemente alla conservazione ed al risorgimento del sapere.

In qualunque ipotesi che immaginare si voglia, si trova sempre che l’Evangelio impedì la distruzione della società : perchè, supponendo da un lato ch’esso non fosse comparso sulla terra, e dall’altro che i Barbari avessero continuato a starsene nelle loro foreste, il mondo romano, marcendo ne’suoi costumi, era minacciato de una spaventevole dissoluzione.

Forse che si sarebbero sollevati gli schiavi ? Ma essi eran perversi al pari dei loro padroni, partecipavano degli stessi piaceri e della stessa vergogna, avevano una medesima religione ; e questa religione passionata distruggeva ogni speranza di cambiamento nei principj morali. Il sapere non procedeva più oltre, ma s’immiseriva ; e le arti decadevano. La filosofia non serviva che a spargere una specie d’empietà, la quale, senza condurre alla distruzione degl’idoli, produceva i delitti ed i mali dell’ateismo nei grandi, mentre lasciava ai piccioli quelli della superstizione. Il genere umano avea forse fatto verun progresso, perchè Nerone non credeva negli Dei del Campidoglio, e ne calcava con disprezzo le statue ?

Tacito pretendeva che sussistesse ancora qualche costumatezza nelle province ; ma è da notare che queste province già cominciavano a divenir cristiane ; e noi poniamo invece il caso che il Cristianesimo non si fosse mai conosciuto, e che i Barbari non fossero usciti dai loro deserti. Quanto agli eserciti romani, i quali avrebbero verosimilmente dilacerato l’imperio, i soldati eran corrotti del pari che tutto il resto dei cittadini ; e più in là sarebbero andati, se i Goti e i Germani non gli avessero arruolati. Tutto quello che puossi congetturare si è, che dopo lunghe guerre civili, e dopo un generale sommovimento da durare più secoli, la stirpe umana si sarebbe ridotta a prochi uomini erranti sopra rovine. Ma di quanti anni non avrebbe poi avuto bisogno questo albero dei popoli prima di stendere i suoi rami di nuovo su tutte quelle reliquie ? Che lungo spazio di tempo non avrebbero impiegato a rinascere le scienze obliate e perdute ! E in quale stato d’infanzia non si troverebbe anche ai dì nostri la società !

Come il Cristianesimo ha salvato l’umana famiglia dalla distruzione, convertendo i Barbari, e raccogliendo i resti della civiltà e delle arti, così avrebbe salvato anche il mondo romano dalla sua propria corruzione, se non fosse soggiaciuto alla forza di armi straniere : sola una religione può rinnovellare un popolo nelle sue sorgenti. E già quella di Gesù Cristo ristabiliva tutte le basi morali. Gli antichi ammettevano l’infanticidio, e lo scioglimento del nodo nuziale, che non è, a dir vero, se non il primo nodo della società ; la loro probità e la loro giustizia si limitavano ai confini della patria, nè oltrepassavano l’estensione del proprio paese. I popoli nel loro complesso avevan principi diversi da quelli del cittadino particolare. Il pudore e l’umanità non si annoveravano fra le virtù. La classe più numerosa era schiava ; le società ondeggiavano continuamente fra l’anarchia popolare ed il dispotismo : ecco i mali a cui il Cristianesimo apportò un rimedio sicuro, come fece manifesto liberando da questi mali medesimi le società moderne. Anche l’eccesso delle prime austerità dei Cristiani era necessario : bisognova che vi fossero dei martiri della castità, quando vi erano pubbliche inverecondie ; penitenti coperti di cenere e di cilicio, quando le leggi autorizzavano i più grandi delitti contro i costumi ; eroi della carità, quando vi erano mostri di barbarie : finalmente, per istrappare tutto un popolo corrotto ai vili combattimenti del circo e dell’arena, bisognava che la Religione avesse, per così dire, anch’essi i suoi atleti ed i suoi spettacoli nei deserti della Tebaide.

Gesù Cristo può dunque con tutta verità esser detto Salvatore del mondo nel senso materiale, come si dice nel senso spirituale. Anche umanamente parlando, il suo passaggio sopra la terra è il più grande avvenimento che avesse mai luogo fra gli uomini, poichè la faccia del mondo cominciò a rinnovarsi dopo la predicazione dell’Evangelio. Notabilissimo è il momento in cui s’avverò la venuta del Figlio dell’uomo : un po’prima la sua morale non era di assoluta necessità, perchè i popoli sostenevansi ancora colle antiche loro leggi ; un po’più tardi questo divino Messia non sarebbe comparso se non dopo il naufragio della società.

Chateaubriand.
(Traduz. di L. Toccagni.)