(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XVIII. Apollo considerato come Dio della Poesia e della Musica e maestro delle nove Muse » pp. 104-114
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume I « Parte I. Delle divinità superiori o di prim’ ordine — XVIII. Apollo considerato come Dio della Poesia e della Musica e maestro delle nove Muse » pp. 104-114

XVIII

Apollo considerato come Dio della Poesia e della Musica e maestro delle nove Muse

Poeta è parola di greca origine che significa creatore, e perciò poesia vuol dir creazione ; quindi il Dio della poesia è il Dio della creazione intellettuale. Ecco il carattere distintivo della vera poesia e del Nume che ad essa presiede. Apollo è dunque il simbolo del poetico ingegno, che non si compra coll’oro, nè si usurpa colle brighe e colle consorterie, ma è gratisdato dalla natura e perfezionato dall’arte. E perciò Dante, poeta e filosofo, invoca non solo Apollo e le Muse, ma altresì l’alto ingegno che lo aiuti122.

Abbiamo in proverbio anche in italiano che Musica e Poesia nacquer sorelle ; e infatti sin dagli antichissimi tempi, sappiamo dalle istorie, che cantavansi gl’inni accompagnandoli col suono degli strumenti ; anzi spesso vi si univa contemporaneamente anche il ballo, e non solo fra gli idolatri, ma pur anco nel popolo eletto 123. Non dovrà dunque recar maraviglia che per associazione d’ idee Apollo fosse riguardato ancora come dio della Musica e di tutte quelle altre belle arti speciali a cui presiedeva ciascuna delle nove Muse, delle quali egli era il maestro.

Come Dio della Poesia rappresentavasi Apollo con una corona di lauro, pianta a lui sacra ; e come Dio della Musica, con una cetra nelle mani, in atto di trarne suoni ; e generalmente questi due simboli si trovano riuniti nelle sue immagini sculte o dipinte, perchè le due arti sorelle non andavano anticamente disgiunte, come abbiam detto.

Per questa stessa ragione che anticamente le poesie erano cantate e accompagnate dal suono di qualche musicale istrumento, tutti coloro che compongono poesie dicono sempre che cantano, ancorchè scrivano soltanto o belino versi da fare spiritare i cani, e da cantarsi al suon d’un campanaccio, come diceva scherzevolmente il Redi124.

Aveva Apollo il titolo di Musagete (condottier delle Muse), quando consideravasi come il maestro di queste Dee. Esse eran figlie di Giove e di Mnemosine che era la Dea della Memoria (come indica il greco vocabolo), per significare che questa facoltà dell’anima, la Memoria, è la madre delle scienze e delle arti, poichè raccoglie e conserva le utili cognizioni e le presenta all’intelletto affinchè le elabori e le faccia fruttificare. Perciò gli Antichi avevano in proverbio che tanto sappiamo quanto teniamo a memoria 125 ; e Dante aggiunge

« ……….. che non fa scïenza
« Senza lo ritenere, avere inteso. »

Le Muse erano nove, ed avevano questi nomi : Calliope, Polinnia, Erato, Clio, Talia, Melpomene, Euterpe, Terpsicore, Urania 126. Ciascuna di esse presiedeva ad un’ arte speciale, cioè : Calliope al poema eroico ; Polinnia all’ode ; Erato alle poesie erotiche, ossia amorose ; Clio alla storia ; Talia alla commedia ; Melpomene alla tragedia ; Euterpe al suono degl’ istrumenti ; Terpsicore al ballo e Urania all’ astronomia127. Quindi si rappresentano con emblemi distintivi del loro speciale ufficio :

Calliope con volto maestoso, cinta la fronte di una corona d’ellera, e in mano l’epica tromba.

Polinnia coll’alloro, lo scettro e un papiro arrotolato in mano.

Erato con una corona di rose e di mirto, tenendo in una mano la lira e nell’altra il plettro.

Clio colla corona d’alloro e un libro in mano.

Talia con volto allegro e ridente, la corona d’ellera in capo e una maschera, oppure, come voleva il Parini, uno specchio in mano.

Melpomene con volto serio, la regal corona in capo, la maschera da tragedia in una mano, e nell’altra lo scettro o il pugnale, e calzata col tragico coturno.

Euterpe aveva per distintivo il flauto.

Terpsicore con vèsti corte e in atto di danzare, aveva inoltre la lira.

Urania coronata di stelle, cogli occhi rivolti al cielo, avendo presso di sè un globo celeste e in mano qualche stromento matematico.

Oltre i preaccennati nomi proprii, avevano le Muse anche degli appellativi comuni a tutte loro, derivati dai luoghi ov’esse abitavano ; i quali termini son più usati dai poeti greci e latini che dagl’italiani. Per altro Ugo Foscolo ne ha intredotto, nel suo Carme I Sepolcri, uno dei più rari a trovarsi anche nelle lingue dotte, quello cioè di Pimplèe, dato alle Muse, perchè talvolta soggiornavano sul monte Pimpla, o presso la omonima fonte in Macedonia sui confini della Tessaglia. Egli dice che

« ……………… quando
« Il Tempo colle sue fredde ali vi spazza
« Fra le rovine (dei sepolcri), le Pimplèe fan lieti
« Di lor canto i deserti e l’armonia
« Vince di mille secoli il silenzio. »

Più comuni e perciò più generalmente noti sono gli appellativi delle Muse, derivati dai monti Elicona, Pindo e Parnasso, dal bosco Castalio, dal fiume Permèsso e dalla fontana Ippocrene, luoghi da loro frequentati. Anzi spesse volte questi stessi nomi sono usati dai poeti per figura di metonimia, a significare le Muse, la poesia o l’ispirazione poetica. Così Dante ha detto nel Canto xxix del Purgatorio :

« Or convien ch’Elicona per me versi,
« Ed Urania m’aiuti col suo coro
« Forti cose a pensar, mettere in versi. »

E con maggior licenza poetica nel Canto i del Paradiso ;

« Insino a qui l’un giogo di Parnaso
« Assai mi fu ; ma or con ambedue
« M’è d’uopo entrar nell’arringo rimaso128.

Anche il Tasso ha usato il nome del monte Parnaso figuratamente per la poesia nel Canto i della Gerusalemme liberata.

« Sai che là corre il mondo ove più versi
« Di sue dolcezze il lusinghier Parnaso. »

Odesi spesso chiamar estro la poetica ispirazione. Questo è un vocabolo greco (come dice Virgilio nel iii delle Georgiche) corrispondente al latino asilus, che in italiano significa assillo o tafano. È dunque l’estro nel suo primitivo significato un insetto molestissimo alle bestie equine e bovine, e a tutti ben noto129. Perciò i poeti, accorti di questa derivazione, difficilmente se ne servono per traslato a significare la loro poetica inspirazione ; e Dante (per quanto io mi ricordi), non l’ha mai usato. Anche il Tasso preferisce la parola furore, come allorquando prima di descriver la pugna di Argante con Tancredi, così invoca la Musa :

« Or qui, Musa, rinforza in me la voce,
« E furor pari a quel furor m’ispira ;
« Sì che non sien dell’opre indegni i carmi
« Ed esprima il mio canto il suon dell’armi ; »

nei quali due ultimi versi accenna pur anco la necessità dell’armonia imitativa o espressiva nella compagine del verso.

Fra i titoli dati alle Muse v’è quello di Pieridi, o Pierie Dee, di cui è questa l’ origine. Le figlie di Pierio re di Tessaglia sfidarono al canto le Muse, credendosi più valenti di loro ; ma furono facilmente vinte, e in pena di lor presunzione cangiate in piche, ossia gazze. La qual metamorfosi significa evidentemente qual fosse la loro voce e la loro abilità nel canto in confronto delle Muse. A Dante piacque questo mito, e rammentando quel che dice Ovidio, che le Muse, per confonder le loro emule presuntuose, cantarono così divinamente da farle rimanere attonite ed atterrite, se ne vale stupendamente coll’ invocar per sè da quelle Dee un simil canto, che abbatta l’invida rabbia de’ suoi nemici :

« Ma qui la morta Poesia risurga,
« O sante Muse, poichè vostro sono,
« E qui Calliopea alquanto surga,
« Seguitando il mio canto con quel suono,
« Di cui le Piche misere sentiro
« Lo colpo tal che disperar perdono130. »
(Purg., i, 7.)

Un’ altra particolarità si racconta delle Muse, volendo spiegare perchè talvolta furon dipinte colle ali. Inventarono i mitologi che le Muse fossero inseguite da Pireneo re della Focide, e che per salvarsi dalle violenze di lui, che le aveva raggiunte nell’alto di una torre, mettessero le ali e volassero via. Pireneo acciecato dal furore, pretendendo di inseguirle anche per aria, precipitò da quell’altezza e rimase morto nella sottoposta piazza. Questa favola ci rappresenta evidentemente un tiranno persecutore dei dotti e della civiltà, ammazzato a furia di popolo in una rivoluzione di piazza.

All’opposto gli egregi poeti adorano e invocano le Muse con entusiasmo senza pari. In Dante poi era sì grande e sì fervente il culto per queste Dee, che per loro, dice egli stesso, soffrì la fame e la sete, e si privò del sonno :

« O sacrosante vergini, se fami,
« Seti e vigilie sol per voi soffersi,
« Cagion mi sprona ch’io mercè ne chiami. »

E qual’è la mercede o il premio che egli ne chiede ? Forse regie decorazioni o laute pensioni ? Null’altro egli desidera, se non che le Muse l’aiutino :

« Forti cose a pensar, mettere in versi. »

I poeti hanno abbellito maravigliosamente il paradiso dell’arte loro, e attribuito al loro Dio anche la facoltà di prevedere e vaticinare il futuro. Di Apollo Augure, ossia indovino o vate, dovremo parlare trattando separatamente degli Oracoli e degli Augurii. Ora però è a dirsi che i poeti hanno attribuito anche a sè stessi in gran parte questa facoltà di presagire il futuro, dicendosi inspirati dal loro Dio ; e perciò si chiamarono Vati, cioè indovini o profeti : dalla qual voce poi si derivò e compose il nome vaticinio e il verbo vaticinare 131. E i poeti non ne fanno mistero ; son gente franca ed aperta, e dicono liberamente quel che sentono e quel che credono, o vogliono che si creda. Ma son pur anco sdegnosi, e guai a chi li tocca !132 e ne hanno non solo l’esempio delle Muse nella metamorfosi delle Piche, ma altresì di Apollo, che in un modo più tremendo (e diremo ancora crudele) fece scorticar vivo il satiro Marsia, dopo averlo vinto nella sfida da lui ricevuta a chi meglio cantasse. A Dante non sfuggì neppur questo mito ; anzi per la stessa ragion che lo mosse nella invocazione alle Muse a rammentare la punizione delle Piche, cioè a terrore degl’invidi, rammentò poi nell’invocare Apollo la punizione di Marsia :

« Entra nel petto mio, e spira tue,
« Sì come quando Marsia traesti
« Dalla vagina delle membra sue. »
(Parad., i, 19.)

Apollo però non fu sempre felice. Sappiamo già come perdè il suo figlio Fetonte : dicemmo ancora che perì fulminato da Giove l’altro suo figlio Esculapio, ad istanza di Plutone, che si vedeva rapire i sudditi dell’Inferno per opera di questo medico incomparabile. Aggiunsero i poeti che Apollo sdegnato con Giove, e non potendo vendicarsi contro di esso, perchè era suo padre e più potente, uccise i Ciclopi che fabbricavano i fulmini. Giove lo punì esiliandolo dal Cielo per cento anni. Ridotto Apollo alla condizione degli uomini, dovè lavorare per vivere, e divenne pastore delle greggie di Admeto re di Tessaglia. Anche in questo placido ufficio ebbe a soffrir disgrazie e dispiaceri. Gli avvenne d’invaghirsi di una Ninfa chiamata Dafne figlia di Peneo, la quale essendosi consacrata a Diana, e fatto voto di non prender marito, non solo ricusò di sposare, ma neppure volle ascoltare Apollo, e datasi a fuggire pregando gli Dei a sottrarla da tal persecuzione, fu cangiata in quella pianta di cui portava il nome, cioè in alloro, poichè Dafne in greco significa lauro. Dalla somiglianza del nome ebbe origine questa trasformazione. Il lauro d’allora in poi fu sempre la pianta sacra ad Apollo, che se ne fece una corona di cui portò sempre cinta la fronte ; e i poeti subito lo imitarono, e dopo i poeti anche i generali trionfanti e tutti gl’ imperatori, ancorchè non fossero poeti nè mai stati alla guerra. Perciò il Petrarca chiamò il lauro

« Arbor vittorïosa e trionfale,
« Onor d’imperatori e di poeti. »

Dante stesso parla più volte del legno diletto ad Apollo, della fronda Peneia e dell’incoronarsi di quelle foglie 133. Il Petrarca però abusa di questo nome di lauro sacro ad Apollo per farvi tanti giuochetti di parole col nome di Laura, l’ Eroina del suo Canzoniere. Su tale argomento basti l’ aver citato i due grandi poeti, padri dell’ italiana poesia :

« Degli altri fia laudabile tacere,
« Chè il tempo saria corto a tanto suono. »

Ad Apollo avvenne ancora un caso opposto, ma non meno funesto. Una ninfa dell’Oceano, chiamata Clizia, invaghita di lui, spinta da gelosia si lasciò morire di fame e di sete ; e Apollo per compassione la cangiò in elitropio, fiore di greco nome che in italiano dicesi girasole. Invenzione semplicissima, basata sul nome e la proprietà di questo fiore, di voltarsi sempre dalla parte dove si trova il sole. Il Poliziano nelle sue celebri ottave, conosciute sotto il nome di Stanze, rammenta questa metamorfosi descrivendo secondo la Mitologia il girasole :

« In bianca veste con purpureo lembo,
« Si gira Clizia pallidetta al Sole. »

Un’altra metamorfosi basata sulla somiglianza del nome fu opera di Apollo. Egli cangiò in cipresso il giovane Ciparisso, perchè questo pastorello suo amico era morto dal dispiacere di avere ucciso, non volendo, un cervo suo prediletto. Invenzione veramente fanciullesca ! Non la sdegnò il Poliziano, adoratore devoto e felice di tutto ciò che fu scritto dalla classica antichità ; e così vi fece allusione :

« Bagna Cipresso ancor pel cervio gli occhi,
« Con chiome or aspre, e già distese e bionde. »

Più tristi effetti ebbe per Apollo la morte del giovinetto Giacinto. Era anche questo un di quei pastorelli amici o dipendenti di Apollo nel tempo del suo esilio e della sua condizion di pastore ; i quali egli avea dirozzati insegnando loro a cantare, a suonare la cetra e la tibia e a far vari giuochi ginnastici. Mentre egli un giorno giuocava con esso al disco (ora direbbesi alle piastrelle), il vento Zeffiro invidioso che Apollo col suo ingegno avesse trovato il modo di esser tranquillo e contento anche nell’esilio, spinse con tutto il suo fiato contro una tempia di Giacinto il disco scagliato da Apollo ; e il giovinetto per questo colpo dopo brevi istanti morì. Apollo dolentissimo, per sollievo della sua afflizione lo cangiò nel fiore che porta lo stesso nome del giovinetto134. Invenzione anche questa dello stesso genere delle precedenti. Ma i mitologi vi aggiungono che i parenti dell’estinto, dando la colpa della morte di esso ad Apollo, e perciò perseguitandolo, lo costrinsero a fuggire da quel soggiorno. Ei se ne andò allora in Frigia, ove si mise a fare il muratore ; e insieme con Nettuno fabbricò le mura della città di Troia ; della cui divina origine e costruzione parlano Omero e Virgilio e molti altri poeti ; e noi dovremo discorrerne narrando la famosa guerra troiana e la distruzione di quella antica città.