(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte III. Semidei, indigeti ed eroi — XLIV. La caccia del cinghiale di Calidonia » pp. 326-330
/ 74
(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte III. Semidei, indigeti ed eroi — XLIV. La caccia del cinghiale di Calidonia » pp. 326-330

XLIV

La caccia del cinghiale di Calidonia

È questa la prima impresa dei tempi eroici in cui si trovino riuniti molti celebri eroi, e che serve perciò, in mancanza di altri dati cronologici, a stabilire almeno che quegli eroi erano contemporanei. Sebbene i Mitologi la considerino un’impresa secondaria (ed è tale se riguardisi soltanto lo scopo di uccidere una belva feroce), e perciò ne parlino soltanto incidentalmente, è per altro di somma importanza per la cronologia degli Eroi, dimostrando essa che furon contemporanei coloro che vi presero parte.

Calidone o Calidonia era la capitale dell’Etolia a tempo del re Oeneo, circa un secolo prima della guerra di Troia. Questo re nel fare un sacrifizio agli Dei in ringraziamento per le buone raccolte ottenute, erasi dimenticato di Diana ; ed essa lo punì mandando un mostruoso cinghiale a devastare lo stato di lui. Non molto lungi dalla città v’era la folta selva Calidonia, da cui usciva il cinghiale per devastare ed uccidere, ed ivi tornava ad imboscarsi ; ed era impresa pericolosissima l’andare ad assaltarlo là dentro. Perciò il re invitò tutti i più coraggiosi e prodi giovani della Grecia a prender parte a questa caccia, e ne fe’capo il suo figlio Meleagro. Accorsero all’invito i più distinti eroi che vivessero in quel tempo : alcuni dei quali divennero anche più celebri in appresso per altre più importanti e mirabili imprese, come Giasone che fu poi duce degli Argonauti, Teseo vincitore del Minotauro, Piritoo suo fidissimo amico, Castore e Polluce gemelli affettuosissimi, che poi divennero la costellazione dei Gemini, l’indovino Anfiarao che fu uno dei sette prodi alla guerra di Tebe, Nestore ancora nella sua prima gioventù, Peleo che fu poi padre di Achille, Telamone padre di Aiace e Laerte di Ulisse ; dei quali tutti dovremo parlare anche in appresso. Degli altri eroi intervenuti a questa caccia, dei quali non si conoscono fatti più celebri di questo, ne diremo qui brevemente quanto è necessario a sapersi.

I più notabili erano : Meleagro figlio del re Oeneo e duce di quella eletta schiera, i suoi zii Plessippo e Tosseo, fratelli di Altea sua madre, e la sua fidanzata Atalanta valentissima cacciatrice. Infatti fu dessa la prima a ferire, benchè leggermente, il cinghiale, dopo che questa fiera aveva già fatto strage di tre o quattro cacciatori e di molti cani. I cacciatori che vi rimasero uccisi dalla fiera non hanno altra celebrità che quella acquistata con questa trista fine ; ma, come dice un moderno poeta :

« Trar l’immortalità dalla sua morte
« È una sorte meschina, o non è sorte. »

Dopo altre vicende che poco importa narrare, finalmente ebbe Meleagro la gloria di atterrare quell’immane belva ; e il diritto che egli avea di prender per sè il teschio e la pelle del cinghiale lo cedè ad Atalanta. Ciò dispiacque ai suoi zii, mal tollerando che una donna con tal distintivo di onore potesse vantarsi di essere stata più valente degli uomini ; e volevano toglierle quell’insigne trofeo62. Di che Meleagro irritato, e dalle parole venendo ai fatti, li uccise ambedue. Fin qui il racconto potrebbe parer vera storia, toltane l’esagerazione della prodigiosa forza e ferocia del mostruoso cinghiale. Ma la scena termina con una favola di nuovo genere, invenzione che Dante stesso rammenta nella Divina Commedia. La favola si riferisce al destino della vita di Meleagro.

Raccontano i Mitologi ed i poeti, e più estesamente di tutti Ovidio nelle Metamorfosi, che quando nacque Meleagro, le Parche comparvero nella stanza ove Altea partorì, e, gettato nel fuoco un ramo d’albero, dissero : « tanto vivrai, o neonato, quanto durerà questo legno ; » e subito dopo disparvero63. La madre, che non si sa per qual privilegio o grazia speciale potè vederle e udirle, corse a levar dal fuoco quel tizzo che già ardeva dall’ un de’ capi, lo spense e lo chiuse fra le cose più care e più preziose. Ma quando seppe che Meleagro aveva ucciso gli zii, all’amor materno cominciò a prevalere la pietà dei fratelli uccisi e l’orrore per la scelleraggine del figlio ; e dopo molti e strazianti contrasti vinse finalmente l’ira, e preso il fatal ramo lo gettò tra le fiamme. Meleagro assente cominciò subito a sentirsi consumar le viscere da un fuoco interno inestinguibile. Se la madre avesse potuto veder quegli spasimi atroci, ne sarebbe rimasta impietosita e avrebbe cercato di porvi rimedio ; chè ella sola il poteva. Quelli che gli apprestavano i suoi affettuosi compagni furono affatto inutili, e la vita del misero Meleagro si estinse allo spengersi dell’ ultima scintilla del tizzo fatale. Quando lo seppe la madre, agitata dal rimorso e divenuta folle per disperato dolore si diede la morte ; il padre ne rimase affranto e istupidito e poco sopravvisse ; e le sorelle (tranne Deianira che era già moglie di Ercole), furon cangiate in uccelli detti Meleàgridi, nome che da alcuni Ornitologi si dà tuttora alle galline affricane (Numida Meleagris).

Ho detto di sopra che Danterammenta nella Divina Commedia la trista fine di Meleagro ; ed eccomi ad accennare in quale occasione. Dopo aver narrato che i golosi son puniti nel Purgatorio con una fame canina resa più acuta dal vedersi dinanzi agli occhi, come Tantalo nell’ Inferno pagano, i pomi e l’acqua senza poterne gustare ; il qual tormento rendeva talmente magre e scarne quelle anime, che

« Negli occhi era ciascuna oscura e cava,
« Pallida nella faccia e tanto scema
« Che dall’ossa la pelle s’informava,

cominciò a pensare

« Alla cagione ancor non manifesta
« Di lor magrezza e di lor trista squama ; »

e non potendo trovarla da sè, finalmente, fattosi coraggio, domandò a Virgilio :

« ……Come si può far magro
« Là dove l’uopo di nutrir non tocca ? »

E Virgilio a lui :

« Se t’ammentassi come Meleagro
« Si consumò al consumar d’un tizzo
« Non fora, disse, questo a te sì agro. »

Ma accorgendosi Virgilio che con questo esempio pretendeva di spiegare un mistero con un altro mistero, citò ancora un fenomeno fisico :

« E se pensassi come al vostro guizzo
« Guizza dentro allo specchio vostra image,
« Ciò che par duro ti parrebbe vizzo. »

E per quanto anche il poeta Stazio, a richiesta di Virgilio, gli desse bellissime spiegazioni scientifiche sulla generazione dell’uomo, sull’unione dell’anima col corpo e lo stato di essa dopo la morte, nulladimeno non sembra che Dante rimanesse tanto convinto quanto altra volta che Virgilio gli disse :

« A sofferir tormenti e caldi e geli
« Simili corpi la Virtù dispone
« Che come sia non vuol che a noi si sveli. »

E così con esempii mitologici, cattolici e scientifici viene a far conoscere che spesso s’incontrano nelle umane cognizioni misteri inesplicabili.