(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte III. Semidei, indigeti ed eroi — XLV. La spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro » pp. 331-341
/ 54
(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte III. Semidei, indigeti ed eroi — XLV. La spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro » pp. 331-341

XLV

La spedizione degli Argonauti alla conquista del Vello d’oro

Su questo argomento furon composti due poemi, uno in greco e l’altro in latino64 ; e sul duce o principal personaggio più e diverse tragedie antiche e moderne ; ed inoltre quasi tutti i poeti, incluso Dante, ne parlano o vi alludono. Cinquanta furono gli Eroi che vi presero parte, alcuni dei quali eran prima intervenuti alla caccia del cinghiale di Calidonia ; e tra questi Giasone che fu il duce e il protagonista degli Argonauti, e acquistò maggior fama di tutti in questa impresa, come Achille nella guerra di Troia. Lo scopo della spedizione era la conquista del Vello d’oro ; e perciò di questo convien prima di tutto parlare.

Chiamasi il Vello d’oro la pelle di un montone che invece di lana era coperta di fili d’oro. S’intende subito che questo montone è favoloso, e perciò convien cercarne l’origine nei precedenti tempi mitologici.

Atamante re di Tebe, che sposò in seconde nozze Ino divenuta poi la Dea Leucotoe, aveva della sua prima moglie Nèfele un figlio e una figlia di nome Frisso ed Elle ; che non contenti della matrigna fuggirono dalla casa paterna portando via un grosso montone col vello d’oro, donato già dagli Dei ad Atamante ; e montati a cavallo su quell’animale, lo spinsero in mare per farsi trasportar da esso fra le onde sino alla Colchide. Ma nel passar lo stretto che ora dicesi dei Dardanelli la giovinetta Elle cadde nel mare e vi annegò ; e per questo fatto mitologico gli Antichi diedero a quello stretto il nome di Ellesponto che significa mare di Elle. Al desolato fratello convenne continuar solo il viaggio marittimo che ebbe termine nella Colchide ov’era diretto. Questa regione, situata fra il Ponto Eusino o Mar Nero, il Caucaso e l’Armenia, appartiene ora alla Russia e corrisponde alle provincie di Imerezia, Mingrelia e Grusia. Fu un prodigioso viaggio quello di Frisso di traversar sull’ aureo montone nuotante l’Arcipelago, lo stretto dei Dardanelli, il Mar di Marmara, lo stretto di Costantinopoli e tutta la maggior lunghezza del Mar Nero, e giunger salvo a Colco. Frisso fu benissimo accolto con quel raro e prezioso animale da Eeta re di quella regione : e volendo mostrarsi grato agli Dei dell’esser giunto a salvamento ove desiderava, offrì loro in sacrifizio quel bravo montone che lo aveva sì ben servito, per appenderne come voto l’aureo vello maraviglioso. Ma gli Dei ricompensarono essi quel povero animale, trasformandolo nella celeste costellazione dell’Ariete ; e invece dell’aureo vello l’adornarono di quarantadue fulgidissime stelle, e il Sole l’onorò coll’ incominciar dal 1° grado di esso l’annuo suo corso tra i segni del Zodiaco. Quindi i poeti alludendo a tal fatto mitologico chiamano questa costellazione l’animal di Frisso ; e Dante l’appella più volte antonomasticamente il Montone, siccome il più buono, il più paziente, il più illustre di quanti montoni sieno esistiti giammai ; e volendo egli esprimer poeticamente lo spazio di sette anni, usa questa perifrasi mitologica ad un tempo ed astronomica :

« … Or va, che il Sol non si ricorca
« Sette volte nel letto che il Montone
« Con tutti e quattro i piè copre ed inforca,
« Che cotesta cortese opinïone
« Ti fia chiovata in mezzo della testa
« Con maggior chiovi che d’altrui sermone. »

Il vello d’oro rimasto nella Colchide fu consacrato, secondo alcuni, a Giove, e, secondo altri, a Marte, e custodito religiosamente, e assicurato con molte cautele e magiche invenzioni, di cui parleremo in appresso.

Alla pericolosa conquista di quest’aureo vello fu diretta la spedizione degli Argonauti ; e non la considerarono essi una impresa di rapina, ma come l’esercizio di un diritto imprescrittibile, di riacquistar ciò che è suo, essendo che l’aureo montone appartenesse originariamente alla Grecia e precisamente alla real famiglia di Tebe, come abbiam detto di sopra. Ma gli Eroi di questa impresa per far lo stesso viaggio marittimo che fece Frisso sulla groppa del suo impareggiabile montone, furon costretti a costruire ed armare una nave che fu creduta la prima inventata dagli uomini, e celebrata perciò con lodi interminabili da tutti gli antichi. La nave fu chiamata Argo, e quindi Argonauti gli Eroi che navigarono in quella. Se le fosse dato questo nome da quello dell’architetto che la costruì, o dall’esser fabbricata in Argo, oppure da un greco vocabolo, che secondo alcuni etimologisti significa veloce, o da altro ortograficamente poco dissimile, ma che significa l’opposto, lascerò deciderlo ai solenni filologi : con tante idee poetiche e storiche che desta questa spedizione, non mi sento disposto ad arrestarmi a quisquilie filologiche.

All’invito di Giasone accorsero gli Eroi da tutte le parti della Grecia, alcuni dei quali eran già stati con lui alla caccia del cinghiale di Calidonia, cioè Teseo, Piritoo, Castore, Polluce e Telamone ; ed altri di cui non si è ancora parlato, cioè Calai e Zete figli di Borea, Ercole, Orfeo, Linceo, Tifi, Tideo, ecc. È ben facile che alla primitiva tradizione, di cui fa cenno anche Omero, non che Esiodo, siano stati aggiunti in appresso nuovi eroi dei diversi Stati della Grecia per accomunar la gloria di questa impresa a tutta la Nazione, poichè si fanno ascendere, come abbiam detto, almeno a cinquanta, uno per remo, essendo Argo una nave di cinquanta remi. In questa comune e nazionale impresa per altro il solo Giasone è quello di cui si raccontano fatti straordinarii e maravigliosi, degni di poema ; gli altri Eroi vi rappresentan soltanto una parte molto secondaria ; ma appunto per questo vi è maggiore unità e si rende più facile e più breve la narrazione.

Giasone era figlio di Esone re di Tessaglia65, a cui fu usurpato il regno dal fratello Pelia ; perciò essendo egli ancor fanciullo, per salvarlo dalle in sidie dello zio, fu mandato ad educare altrove, e dicono presso il Centauro Chirone. Ma divenuto adulto e prode ritornò arditamente in Tessaglia per ridomandare allo zio il regno paterno. Pelia non osando di dargli un aperto rifiuto, lo seppe talmente allucinare colle idee della gloria e dell’onor nazionale, che lo impegnò a riconquistare il vello d’oro che ap parteneva alla Grecia, e gli promise di restituirgli il regno al suo ritorno, ma sperando in cuor suo che sarebbe perito in quella impresa.

Fu costruita la nave per questa spedizione coi pini del monte Pelio e colle quercie della selva di Dodona sacra a Giove, e, aggiungono i poeti, sul disegno dato da Minerva stessa, per significarne la perfetta costruzione. Riuniti a Giasone i cinquanta eroi, la nave salpò per la Colchide, che allora chiamavasi la terra di Eea, vocabolo d’incerta e vaga significazione, indicante soltanto una terra lontana, come l’Oga Magoga della Bibbia e il paese di Cuccagna e di Bengodi dei nostri novellieri. Gli Argonauti sapevano soltanto che quel paese era fra settentrione ed oriente, e in quella direzione volsero la prora. Il capitan della nave era Giasone, il pilota Tifi, ed a prua stava Linceo di vista acutissima, (come significa il suo nome derivato da lince, per osservare se v’eran sott’ acqua scogli e sirti, ove corresse rischio di frangersi o arrenare la nave. Orfeo interrompeva la monotonia del viaggio rallegrando i compagni col canto e col suon della cetra : tutti gli altri Eroi costituivano la ciurma che eroicamente remava. Convenne far diverse fermate per prender, come suol dirsi, paese, ossia per avere a mano a mano opportune notizie riferibili al luogo e allo scopo del loro viaggio, ed anche per rinnovare le loro provvisioni da bocca, perchè Ercole, oltre ad essere il più forte e robusto eroe, era anche il più gran divoratore, e mangiava per cinquanta, bevendo ancora in proporzione ; e perciò gli avevan messo il soprannome di Panfago, che vuol dir mangia-tutto.

La prima fermata fu nell’isola di Lenno,

« Poi che le ardite femmine spietate
« Tutti li maschi loro a morte dienno, »

come dice Dante ; e vi giunsero appunto dopo l’atroce fatto che le donne di quell’isola, malcontente delle leggi e dei trattamenti degli uomini, li uccisero tutti per costituirsi in repubblica femminile. La sola Issipile, figlia del re Toante, con pietosa frode salvò la vita a suo padre ; e meritava perciò una miglior sorte di quella che si racconta di essa, poichè giunto in quell’isola insieme cogli altri Argonauti Giasone,

« Ivi con segni e con parole ornate
« Issifile ingannò la giovinetta,
« Che prima tutte l’altre avea ingannate ; »

e poi traditane la buona fede la lasciò alle persecuzioni delle sue crudeli compagne, che scoperta la sua pietà filiale, le tolsero il trono e la cacciarono dal regno. Inoltre fu presa dai pirati e venduta schiava a Licurgo re di Tracia66. Dante, amico non timido amico al vero ed al retto67, dopo aver narrato l’inganno di Giasone, non fa come certi lassisti 68 che scusano facilmente i così detti errori giovanili : per lui qualunque inganno dannoso al prossimo, in qualunque età commesso, è non solo meritevole di punizione, ma anche di pena maggiore dell’omicidio ; e perciò mette Giasone nella prima bolgia dell’Inferno fra i dannati che eran puniti

« Da quei Dimon cornuti con gran ferze
« Che li battean crudelmente di retro ; »

e soggiunge :

« Tal colpa a tal martirio lui condanna,
« Ed anche di Medea si fa vendetta.
« Con lui sen va chi da tal parte inganna. »

Dopo questo episodio, poco cavalleresco a dir vero, proseguirono gli Argonauti il loro viaggio. Troppo lungo e monotono sarebbe il racconto di tutti e singoli gl’incidenti, che per lo più son comuni alla maggior parte dei viaggi marittimi narrati dai poeti, come, per esempio, qualche tempesta, qualche combattimento coi popoli delle coste marittime o delle isole, qualche pericolo di scogli o di sirti ; in quella vece ci arresteremo piuttosto a riferire un episodio di nuovo genere, imitato anche dall’Ariosto, e rammentato più d’una volta dall’Alighieri, cioè la liberazione del re Fineo dalle Arpie.

Le Arpie eran mostri che Dante dipinge così :

« Ale hanno late e colli e visi umani,
« Piè con artigli e pennuto il gran ventre,
« Fanno lamenti in sugli alberi strani. »

E bisogna aggiungere quel che ne dicono i poeti greci e i latini, che cioè questi mostri avevano l’istinto di rapire i cibi dalle mense e di contaminarle con escrementi che fieramente ammorbavano. Il loro stesso nome di Arpie deriva da un greco vocabolo (arpazo) che significa rapire 69. Ad essere infestato da tali mostri era condannato dagli Dei Fineo re di Tracia in punizione delle sue crudeltà verso i proprii figli, e vi fu aggiunta pur anco la cecità. Approdati gli Argonauti nella Tracia o bene accolti da Fineo, vollero per gratitudine liberarlo dalle Arpie, ed oltre a cacciarle dalla reggia colle armi, le fecero inseguire per aria da Calai e Zete, figli di Borea, che avevano le ali come il loro padre ; i quali le respinsero fino alle isole Strofadi, ove poi furono trovate da Enea nel venire in Italia, come a suo luogo diremo. Finalmente furono confinate nell’Inferno, ove Dante le trovò a tormentare i dannati per suicidio.

Ma poichè l’Ariosto, coll’immaginare che il Senàpo imperatore dell’Etiopia avesse ricevuto una punizione simile a quella di Fineo, ha riunito in poche ottave tutte le classiche reminiscenze degli antichi poeti su questo fatto mitologico, aggiungendovi di suo altre invenzioni medioevali, riporterò prima l’imitazione degli Antichi, e dipoi il diverso modo di liberazione da lui immaginato :

« Dentro una ricca sala immantinente
« Apparecchiossi il convito solenne,
« Col Senàpo s’assise solamente
« Il Duca Astolfo, e la vivanda venne.
« Ecco per l’aria lo stridor si sente,
« Percosso intorno dall’orribil penne :
« Ecco venir le Arpie brutte e nefande,
« Tratte dal cielo a odor delle vivande.
« Erano sette in una schiera, e tutte
« Volto di donne avean pallide e smorte,
« Per lunga fame attenuate e asciutte,
« Orribili a veder più che la morte.
« L’alacce grandi avean, deformi e brutte,
« Le man rapaci e l’ugne incurve e torte,
« Grande e fetido il ventre, e lunga coda
« Come di serpe che s’aggira e snoda.
« Si sentono venir per l’aria e quasi
« Si veggon tutte a un tempo in su la mensa
« Rapire i cibi e riversare i vasi ;
« E molta feccia il ventre lor dispensa,
« Tal che gli è forza d’otturare i nasi,
« Che non si può patir la puzza immensa.
« Astolfo, come l’ira lo sospinge,
« Contra gl’ingordi augelli il ferro stringe.
« Uno sul collo, un altro su la groppa
« Percuote, e chi nel petto e chi nell’ala ;
« Ma come fera in su un sacco di stoppa,
« Poi langue il colpo, e senza effetto cala :
« E quei non vi lasciâr piatto nè coppa
« Che fosse intatta ; nè sgombrâr la sala
« Prima che le rapine e il fiero pasto
« Contaminato il tutto avesse e guasto. »
(Orl. Fur., xxxiii, 119.)

A questo punto l’Ariosto lascia l’imitazione degli Antichi, e con le invenzioni del Medio Evo, di cui si era valso in altri luoghi del suo poema, narra la liberazione del Senàpo dalle Arpie in modo più maraviglioso di quello dei poeti classici greci e latini. I mezzi che egli adopera sono due l’ Ippogrifo, di cui abbiamo riportato altrove la descrizione stessa fattane dall’Ariosto, e l’altro non meno straordinario e mirabile, di cui riporterò parimente la descrizione coi versi stessi dell’Ariosto ;

« E questo fu d’orribil suono un corno
« Che fa fuggire ognun che l’ode intorno.
« Dico che ‘l corno è di sì orribil suono
« Ch’ovunque s’oda, fa fuggir la gente.
« Non può trovarsi al mondo un cor sì buono,
« Che non possa fuggir come lo sente.
« Rumor di vento e di tremuoto, e ‘l tuono,
« Al par del suon di questo, era nïente. »
(Or. Fur., xv, 14.)

Conosciuti i mezzi, ecco in qual modo l’Ariosto li fa porre in opera dal duca Astolfo per la liberazione del Senàpo dalle Arpie :

« Avuto avea quel re ferma speranza
« Nel duca, che l’ Arpie gli discacciassi ;
« Ed or che nulla ove sperar gli avanza,
« Sospira e geme e disperato stassi.
« Viene al duca del corno rimembranza,
« Che suole aitarlo ai perigliosi passi ;
« E conchiude tra sè, che questa via
« Per discacciare i mostri ottima sia.
« E prima fa che ‘l re con suoi baroni
« Di calda cera l’orecchio si serra,
« Acciò che tutti, come il corno suoni,
« Non abbiano a fuggir fuor della terra.
« Prende la briglia e salta su gli arcioni
« Dell’Ippogrifo ed il bel corno afferra ;
« E con cenni allo scalco poi comanda
« Che riponga la mensa e la vivanda.
« E così in una loggia s’apparecchia
« Con altra mensa altra vivanda nuova.
« Ecco l’Arpie che fan l’usanza vecchia :
« Astolfo il corno subito ritrova ;
« Gli Augelli che non han chiusa l’orecchia,
« Udito il suon, non puon stare alla prova ;
« Ma vanno in fuga pieni di paura,
« Nè di cibo nè d’altro hanno più cura.
« Subito il paladin dietro lor sprona ;
« Volando esce il destrier fuor della loggia,
« E col castel la gran città abbandona,
« E per l’aria, cacciando i mostri, poggia.
« Astolfo il corno tuttavolta suona ;
« Fuggon l’Arpie verso la zona roggia,
« Tanto che sono all’altissimo monte,
« Ove il Nilo ha, se in alcun luogo ha, fonte.
« Quasi della montagna alla radice
« Entra sotterra una profonda grotta,
« Che certissima porta esser si dice
« Di chi all’inferno vuol scender talotta.
« Quivi s’è quella turba predatrice
« Come in sicuro albergo ricondotta,
« E già sin di Cocito in su la proda
« Scesa, e più là, dove quel suon non s’oda. »

E così l’Ariosto collega l’antico col moderno, e fingendo che Astolfo nell’800 dell’èra volgare avesse spinto le Arpie nell’Inferno, ove Dante, 500 anni dopo Astolfo, dice di averle trovate, mette d’accordo, come se fossero una storia vera, le fantasie di tutti gli altri poeti col racconto di sua invenzione.

Da Fineo ebbero gli Argonauti notizie e consigli sul miglior modo di schivare i pericoli della loro navigazione ; e partiti da lui colmi di ringraziamenti e di doni proseguirono il loro viaggio per l’Ellesponto e la Propontide. Prima di entrar nel Ponto Eusino perderono la compagnia di Ercole, il quale avendo mandato il suo valletto Ila a prender dell’acqua sulle coste della Misia, e non vedendolo ritornare, scese a terra a cercarlo e non volle seguitare il viaggio. Per quanto cercasse, non lo trovò più ; e fu detto dai poeti che le Ninfe Naiadi avevano rapito il giovinetto Ila ; il che in prosa significherebbe che era annegato in quella fonte ov’egli andò ad attingere l’acqua. Gli Argonauti non furon troppo dolenti di perder la compagnia del loro carissimo Panfago, perchè poteron procedere più speditamente, alleggerita di quel grave peso la nave, e senza doversi così spesso fermare a far nuove provvisioni da bocca.

Tutti gli altri incidenti che avvennero avanti che gli Argonauti giungessero nella Colchide sono di lieve importanza in confronto dei già narrati e dell’azione principale, scopo del loro viaggio ; quindi ci affretteremo a parlare di questa. E sebbene la presenza e il braccio di tanti famosi Eroi rendesse sicura qualunque impresa da compiersi colla forza, trovaron per altro che questa non bastava a conquistare il Vello d’oro : bisognava ancora vincer gl’incanti, nelle quali arti i Greci eran novizii in confronto dei Colchi70. Sarebbe dunque rimasta vana ed inutile la spedizione degli Argonauti, quanto al fine ultimo della medesima, se Giasone non avesse trovato una Maga che lo aiutasse a superare ogni ostacolo soprannaturale. Con tale aiuto potè egli solo compier l’impresa, rimanendo spettatori e pieni di maraviglia gli stessi Eroi suoi compagni. Ecco perchè d’ora in avanti anche i nostri sguardi dovranno esser principalmente rivolti su Giasone e la Maga Medea.