(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte IV. Le Apoteòsi — LXVIII. Apoteosi degl’Imperatori Romani » pp. 497-499
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(1874) La mitologia greca e romana. Volume II « Parte IV. Le Apoteòsi — LXVIII. Apoteosi degl’Imperatori Romani » pp. 497-499

LXVIII

Apoteosi degl’Imperatori Romani

Benchè nella Greca Mitologia si trovino alcuni uomini illustri elevati agli onori divini, tali apoteosi molto differivano da quelle degl’Imperatori romani. Infatti in Grecia richiedevasi 1° che l’eroe da considerarsi come un Dio fosse figlio di una Divinità o per padre o per madre ; 2° che vivendo avesse compiute imprese straordinarie per valore o per ingegno a prò dell’umanità ; e 3° che solo dopo la morte, e quando in lui si riconoscessero le due precedenti condizioni fosse considerato e adorato qual Nume. Perciò non deificarono nè Cadmo, nè Giasone, nè Peleo, nè Ulisse, perchè non eran creduti figli di una Divinità. Nell’Impero Romano all’opposto l’apoteosi degl’Imperatori e delle Imperatrici era divenuto un vile atto di adulazione al potere assoluto e dispotico del supremo imperante o dei suoi eredi e successori, non già come in Grecia un atto spontaneo delle popolazioni memori delle virtù dei suoi uomini illustri, e grate dei benefizii da essi ricevuti. Chi poteva infatti stimar benefici Dei i proprii tiranni, e sante Dee Livia, Poppea e Messalina ?

A tempo dei re di Roma fu deificato soltanto Romolo, ma per gherminella politica dopo che i Senatori lo ebbero segretamente ucciso ; i quali non sapendo poi come acquietare il popolo che ricercava il suo re guerriero, gli fecero credere per mezzo di Procolo che fosse assunto in Cielo e divenuto un Nume, e che bisognasse adorarlo sotto il nome di Quirino. Il popolo che credeva Romolo figlio di Marte, credè facilmente questa nuova impostura come una teologica conseguenza della prima ; e il Senato fu ben contento di adorar come Dio colui che non avea potuto tollerar come re. Così cominciò ben presto in Roma la politica a far servir la religione agl’interessi mondani.

Da Romolo sino a Giulio Cesare non si trova altra apoteosi nella Storia romana. Neppur Numa, il piissimo Numa, l’inventore di tanti riti religiosi a lui suggeriti, come egli dava ad intendere, dalla Ninfa Egeria, fu deificato. Quasi 700 anni corsero dalla morte di Romolo a quella di Cesare, nel qual tempo il popolo romano divenne conquistatore del mondo, senza che pensasse mai a deificare alcuno dei suoi più celebri generali che a tanta gloria e potenza lo guidarono. Solamente dopo la proditoria uccisione di Giulio Cesare, il desiderio di sì cara esistenza, a cui era dovuta la prostrazione del partito aristocratico e inoltre tanti vantaggi a favore del popolo, fece nascere ed accoglier con entusiasmo l’idea di venerarlo qual Nume. Ma spenta con Marco Bruto la libertà e perduta affatto anche l’ombra di essa sotto Tiberio, le apoteosi degli Imperatori e delle Imperatrici non furono altro che solennità comandate dal Principe e servilmente festeggiate dal popolo, come abbiam detto di sopra ; e nel frasario stesso degl’Imperanti l’esser trasformati in Dei significava morire. Infatti l’imperator Vespasiano sentendosi vicino a morte disse : a quanto mi pare, divengo un Dio (ut puto, Deus fio) ; e Caracalla dopo avere ucciso il fratello Geta tra le braccia stesse della madre, ne ordinò l’apoteosi dicendo : sia Divo, purchè non sia vivo (sit divus, dum non sit vivus). Questa stessa frase nel poema dell’Ariosto adopra Ruggiero, quando per significare che avrebbe ucciso il figlio dell’Imperator Costantino egli dice : e sia d’Augusto Divo. Divi infatti chiamavansi e non Dei gl’imperatori romani deificati, come li troviamo detti anche nella raccolta delle Leggi romane dell’Imperator Giustiniano (Divus Augustus, Divus Antoninus, Divus Traianus, ecc).

Tutte le cerimonie dell’apoteosi, o consacrazione degl’ Imperatori romani, ci furono descritte estesamente non solo da Erodiano, ma ancora da Dione Cassio senatore, che assistè per dovere d’ufficio a quella dell’Imperator Pertinace l’anno 193 dell’E. V. Troppo lungo sarebbe il riportarle, ed anche soltanto il compendiarle ; ed inoltre stancherebbe la pazienza di qualunque lettore la descrizione di tante stupide superstizioni. Basti dunque il sapere che si fingeva che l’imperatore non fosse morto, ma soltanto malato ; e per aiutar questa finzione ponevasi in un gran letto di avorio la statua di cera del defunto invece del suo cadavere, il quale era seppellito o arso segretamente. I medici per sette giorni si recavano a visitare l’illustre infermo (vale a dire la statua di lui) e uscivano dicendo ogni giorno che l’imperatore andava sempre peggiorando. Intanto si ergeva nel Campo Marzio un grandioso rogo di legni intagliati in forma di edifizio a quattro o cinque piani, sull’ultimo dei quali ponevasi un carro dorato con la statua dell’Imperatore. Nell’interno del rogo eravi una stanza riccamente ornata di tappeti di broccato d’oro, di quadri e di statue : ivi deponevasi il feretro. Dentro e intorno al rogo spargevansi incensi ed aromi preziosi in gran quantità. Vi appiccava il fuoco l’erede del trono tenendo altrove volta la faccia. Quando le fiamme giungevano all’ultimo piano, vedevasi volar via da quello un’aquila, e dicevasi che l’augel di Giove portava in Cielo e nel consesso degli Dei l’anima dell’Imperatore. Se poi facevasi l’apoteosi di una Imperatrice, invece di un’aquila sostituivasi un pavone, uccello sacro alla Dea Giunone. In brev’ora le fiamme riducevano in cenere tutto l’edifizio, e consumavano inutilmente un tesoro che avrebbe potuto alleviar le miserie di molte migliaia di famiglie.

Si conservano tuttora circa 60 medaglie coniate in memoria di altrettante apoteosi diverse ; in ciascuna delle quali vedesi un’ara ardente ed un’aquila che ergesi a volo, ed inoltre vi si legge la parola Consecratio, che era il termine officiale latino significante l’apoteosi.