osi lettori ecco il primiero Parto alla luce del mio scarso ingegno :
Che
accoglierete il rozzo dono io spero Dandomi in ci
ta del destin, che mi fa guerra. Riceva ognun ciò, che donar poss’io,
Che
certo io sono, e il creder mio non erra, Col vost
l mondo talor venghi distrutto. È questi quell Vulcan Nume abborrito,
Che
ebbe nel cor troppo impudenti voglie, E ad onta d
Non furono i suoi fulmini, che atterrarono quei mostri infelloniti ?
Che
meraviglia fia dunque, che tanta grazia perciò pr
T erribil Dio alla pietà crudele, Nemico de’ mortali ogni momento,
Che
tien seguaci suoi ira, e spavento, Che si pasce d
mico de’ mortali ogni momento, Che tien seguaci suoi ira, e spavento,
Che
si pasce di sangue, e di querele. Che attosca l’a
n seguaci suoi ira, e spavento, Che si pasce di sangue, e di querele.
Che
attosca l’alma con continuo fiele, Avido sol di r
sol di risse, e di cimento, Infausto a’ Regi, a’regni ognor tormento,
Che
corre il mar di sangue a piene vele. Fonte, e cag
e cagion di stragge, e di ruina, Autor di pianto per qualunque stato,
Che
l’uom più fiero a piedi suoi s’inchina. Dal mondo
igero, eloquente, furbo, e astuto Col caduceo in man, col piè veloce,
Che
vola allor che passa, e resta muto Qualunque nel
a Giove germana eletta figlia D’opi funesta, che pur regna in Cielo,
Che
per l’ aria talor da noi si piglia Arbitra di pro
tra di procelle, e calma, e gelo. Pronuba delle nozze in bianco velo,
Che
a Lucina nell’ opre ella somiglia, Spesso geloso
d’ogni piacer, madre d’amore, Fonte d’immense grazie, e dolce ardore,
Che
in ciel non fù chi somigliasse ad ella. Febo, e M
bene, ogni mal da questa nasce Cagion d’aspri perigli, e di dolcezza,
Che
di tosco, e di mel gl’uomini pasce. Cade per lei
che fia di qualsivoglia vita. Alcun non giunge al fatal tron vicino,
Che
all’uom da lungi la carriera addita, Nè val forza
campar da morte il figlio Sarpedone ne è un troppo chiaro attestato.
Che
se poi alcune volte leggiamo negl’antichi autori
mostra per donar leggi alla terra Il Nume della pace, e della guerra,
Che
sa riunir in lui speranza, e tema. Egli fa che il
scettro rüidissimo, e pesantc, Con altissimo capo al par d’un monte,
Che
minaccia i mortali in ogni istante. Che cerca i d
ssimo capo al par d’un monte, Che minaccia i mortali in ogni istante.
Che
cerca i danni altrui con voglie prontc, Che scnot
mortali in ogni istante. Che cerca i danni altrui con voglie prontc,
Che
scnote il mondo al muover delle piante, Che versa
altrui con voglie prontc, Che scnote il mondo al muover delle piante,
Che
versa ognor da lumi un tristo fonte, E sè stesso
ni core, eccovi Bacco. Dichirazione, e sviluppo Chi fù Bacco.
Che
lo spirito della gelosia sia il fomento d’ogni fa
e torri sul crin superba, e forte Si mostra nel poter la Dea Tellura,
Che
tutti unisce i pregi di natura, E per essa il mor
serpina Sonetto T ruce in volto, e nel tratto aspra Regina,
Che
la sua possa dispietata impiega Contro l’abisso,
a palesar giammai non resta, Costante più, quanto è di più sprezzata.
Che
del par lieta in calma, ed in tempesta Figlia del
le cinge, e sostiene, un tal candido giglio oggi illibato si serba ?
Che
poi il detto fanciullo si pinge presso orrido Dra
n disegno volge l’intelletto, Cura del tutto ognor si nudre in petto,
Che
alcun si accosti proibisce, e vieta Nemica di tes
olo IV. Pace Sonetto D onna, che vince i pregi di Natura,
Che
porta al crin serto di verde alloro, Versa a una
al crin serto di verde alloro, Versa a una man ricchezze a dismisura,
Che
fanno della terra ampio ristoro. Nell’altra man,
ne’gesti suoi gioia, e decoro. Dal Ciel, dal mondo tutto è venerata,
Che
accende al cor d’ogni piacer la face, E quanto pi
a cura il vil piacer mondano. Tien la cicogna a piedi, ed è sì bella,
Che
figlia sembra del fattor sovrano ; Questa è pietà
e penetri il core, e in quel favella Nella semplicità par cosi bella,
Che
ti versa nel sen di gioia un rivo. D’essa l’imper
ro i suoi passi son veramente i simboli d’un’animo schietto e fedele.
Che
se finalmente d’una picca armata si scorge tutto
atrona di gentil sembianza Versa da un urna un sempre egual ruscello,
Che
in ogni dì disseta e questo e quello, E l’onda se
cizia Sonetto D onna, che abbraccia un sempre verde alloro,
Che
alla sinistra mano ha un cor piagato, E un papiro
Essa vince ne’pregi ogni tesoro, Ogni affanno da lei vien calpestato,
Che
per giovare altrui scorda il suo stato, Fonte ine
, Fonte inesausta di divin ristoro. Nemica d’interessi ognor sincera,
Che
la vera virtù regge, e conserva, Docile, giusta,
ta sol può sprezzar sorte proterva ; Ecco l’emblema di amicizia vera,
Che
ognun la vanta, e che nessun l’osserva. Annot
Ogni contento l’Uom per essa prova, Questa è felicità vera ricchezza,
Che
l’uom sempre ricerca, e mai non trova. Annota
olo XVI. Fama. Sonetto G arrula donna, irrequïeta, alata,
Che
silenzio, e ritiro insiem abborre, Il mar, la ter
pentimento, e nel rimorso atroce. Porta un rasoio nella destra mano,
Che
tronca nel fuggir qual sia baldanza, Tien l’altra
re questo del bene ogni sembianza, Ecco l’Occasïon, che l’uomo invano
Che
torni a voti suoi tien più speranza. Annotazi
. Vendetta Sonetto D onna di truce volto, e guardo fiero,
Che
viperco flagello in man si porta, Feroce, alata i
viperco flagello in man si porta, Feroce, alata in portamento altero
Che
l’opre spïa cautamente accorta. Alza un’ardente f
I. Mensogna. Sonetto A udace, zoppa, vecchia, mascherata,
Che
il suo deforme in ricco ammanto cele, Porta una b
ui la gloria sua ne resta offesa Essa, che nel mortal sempre favella,
Che
gli solleva, anzi incoraccia il core, Che fra per
nel mortal sempre favella, Che gli solleva, anzi incoraccia il core,
Che
fra perigli suoi parve più bella, Perche figlia g
eduli rei depresse, e uccise. Nel sangue giusto sollevò il suo trono,
Che
fu del soglio suo primo ornamento ; Ma da quel sa
oglio suo primo ornamento ; Ma da quel sangue poi scoppiò quel tuono,
Che
formò dei tiranni il reo spavento. Come suole app
Fatto vittima un Dïo, e Sacerdote. Ivi le fiamme sue cotanto estese,
Che
aperse all’ uom de suoi tesori il regno, Ivi la v
voler, col saper, co’ suoi costumi Tanto fece avvanzar la navicella,
Che
obice non le son nè mar, nè fiumi. Senz’asta, sen
ti, E impallidir d’ogni superbo il viso. Santa religion tu quella sei
Che
fai tremar chi sol negarti ardisce, E mentre chi
ti due versi di Temistocle avanti a Serse. E la colpa, e non la pena
Che
può farmi impallidir Può esprimersi con maggior
o il vostro amore ; Ma il vostro amor non passi Tanto i confinï suoi,
Che
debbano arrossirne e Tito, e Voi. O nel descrive
e amici Chi gli vanta compagni, e non si trova. Follia la più fatale,
Che
potessi scordar d’ esser mortale O finalmente ne
cro di G. Cristo. Tormento Pensando Spietato L’offesa Io provo
Che
ardito Nel petto ; Ti fei, E pure Pensando
combattere il Minotauro. Se cadrai Ma se avviene, Tosto a morte
Che
perisci, La tua sorte E finisci Seguirò. Di r
sono Se si trova Il mio trono Chi tal nuova Scenderò. Può recar
Che
verrai, La man franca E i miei rai Vela bianca
nca nave, Non appar più raggio in cielo, Ed il peso suo più grave
Che
speranza può recar. Traboccar nel mar dovrà. Fi
lamento querulo E giunto presso un’edera L’amico evoca, e smania,
Che
con suoi giri intrecciasi E il susurrar degli alb
re van confusi Quai lupi fieri, ed avidi, Pe’ molti colpi rendono
Che
in mandra entran di notte I proprii brandi ottusi
Argo volea deprimere, Difese dalle femmine, E con tremendo impero
Che
in lor non han paura, Vuol la città distruggere
che puote infemina Una novella legge, L’odio, lo sdeguo, e l’ire,
Che
il sesso imbelle, e debole E in quel momento scor
batterem ? le donne A lor cotal rampogna O vincitori, o in perdite
Che
se vorremo vincere Trïonferan le gonne, Sarà fa
Che se vorremo vincere Trïonferan le gonne, Sarà fatal vergogna,
Che
perdono, o che vingono E se andaremo a perdere
momento Egli esclama : Eterno Nume Tronchi, zolle, e quanto appare
Che
sarà di ma infelice ! Si strascina irato al mar
si porta il fiume Là una pecora belante, Cade svelta la pendice,
Che
precipita dall’erta, E in tal pena cruda, e acerb
la Hò perduto la zambogna Per il fiume un mar già fatto, Lasso me !
Che
far degg’io ? L’alta quercia ancor traballa, Ch
’io ? L’alta quercia ancor traballa, Chi più regge il viver mio ?
Che
dal vento è svelta a un tratto Ah ! se tutto ho g
I suoi lombi a un masso appoggia, Meglio fia, ch’io cada a morte
Che
una rupe in fuor stendea E in quell’acqua, che gi
mio. Mai la seconda Sento la voce appien, Quindi l’urna abbracciò
Che
parla a questo sen Il cener contemplò Mi chiama
raditor. Ma di Manlio il figlio ardito, Quindi in gabbata sedendo
Che
il decreto in se ignorava Sprezza appien di lui l
te ? Ecco di già perduta Povero sangue mio L’ultima mia speranza,
Che
più soffrir degg’io Non hò chi più m’aiuta In s
e più soffrir degg’io Non hò chi più m’aiuta In sorte sì dogliosa
Che
va la mia costanza ? Nulla è di Giove il tuon C
rte sì dogliosa Che va la mia costanza ? Nulla è di Giove il tuon
Che
ne sarà di me ! Lassa non son più sposa, Il fig
ggir. Egli impon, che alla tomba d’Achille Polissena svenar si dovrà,
Che
tra mille altre Vergini, e mille Quegli ha amata,
la Tanti affanni potranno finir. Ma non basta ; l’istesso suo figlio,
Che
la regia donzella si adora E del padre l’amor non
figlio colla perdita del suo. Promulga il re Zeleuco il gran decreto
Che
perda gli occhi, e cada in fier periglio Ognun, c
ensando al dover del regnatore, E qual’obbligo tien colui, che regna,
Che
forma il ben d’altrui col suo dolore Che il camin
bligo tien colui, che regna, Che forma il ben d’altrui col suo dolore
Che
il camin di giustizia un re disegna, E chi è chia
tutt’affannosa Afflitta accorre. Vista la veste, che il fratel recava
Che
pel Curiazio un dì trapunto avea Repente esclama
è son congiurati i due suoi figli. Son venticinque giovani i rubelli,
Che
egli fece tradur tutti in Senato ; Quindi feroce
o gregge Alcon conduce a pascere. Lascia di borbottar, saluta Venere,
Che
in si bella stagione i campi decora, Per cui fa i
l’usignuol, e l’Ecora ; Ma tu ti mordi il labbro ? alcerto io dubito,
Che
fremi ancor per la rubata pecora. Tit. Uranio mi
. Uranio mio possa morir di subito Quel Melibeo mascalzon ladrissimo,
Che
per batterlo ier mi svolsi il gubito. Tre mesi so
mio non ci potremo sciogliere Da un ladrone si astuto, e si terribile
Che
sà tutti gli istanti ardito cogliere. Or senti, e
, e vedi se ti par possibile, Fra le sue ruberie pur questa annovero,
Che
ad ognun, che l’udì parve incredibile. Venne a ce
pascolar la già rinata erbetta Scendon dal monte mille, e mille rivi,
Che
versa intorno la disciolta neve Mostrano i fonti
a Ritta la raddrizzò tra scoglio, e scoglio, Ed or dov’è il nocchiero
Che
con tanto sudore, e tanta cura L’umil nave guidò
o padre in grembo a rea sventura Superbamente al mesto auriga impone,
Che
dia feroce ai suoi caval di sprone, E il corpo al
bia dunque per norma chi è quaggiù La maschera evitare, ed io ben sò,
Che
non sa mascherarsi la virtù. La Rosa, che si l
illana Or mi strappi al gambo mio Qual’ è il mal, che t’ hò fatt’ io,
Che
mi dai pena si strana. Sarei stata la sovrana Sop
campi più dolce è allor l’aspetto. Sul limitar tengo un erboso letto
Che
ameno l’ombra il fa di qualche canna, Vieni, che
affar mi pince andarne al letto, Nè di zampogna più toccar la canna ;
Che
lo stravizzo non mi vince, o inganna, E mi piace
i omai schernita, e abbandonata ; Se la mia gloria cade or calpestata
Che
serve più indugiar, corriamo a morte ; Hai vinto,
i Cartago cader veggio le porte, Veggo la reggia oppressa, e desolata
Che
più ti resta donna sventurata Senza tron, senza r
i orribil danno ? Danno Chi preveder tenta tremenda pena ? Pena Ahi !
Che
non reggo a si spietato affanno, Affanno Or che c
ire allo stesso divin Platone pel gran capitale delle sue cognizioni.
Che
poi sia stato a somiglianza di Mercurio vero lega
Deo exhortante per nos, obsecramus pro Christo reconciliamini Deo ?
Che
finalmente meglio di Mercurio abbia richiamato le
feceris, così nel Esod. al 20 non aedificabis illud sectis lapidibus.
Che
se tal legge del patto antico oggi per istituzion
tiochns, et amici eius, et ut acciperet pecunias multas dotis uomine.
Che
se qvesto fù il suo depravato disegno, con ragion
lo ? fuor di senno invero si direbbe un agricoltore, un’ ammalato ec.
Che
solleciti per la divina prescienza l’uno si asten
mani. Da qual fonte ebbe origine. Chi fù Saturno. Suoi viaggi. (1).
Che
il Saturno de’ Gentili fosse stato il Noè della G
a bocca d’atro sangue immonda. Suoi sacrificii. Chi fù Bacco. (1).
Che
il celebre conduttiere degl’Ebrei Mosè ci sia sta
riosa sua meta. Ottobre 1871. Corrado Gargiolli . Lezione prima.
Che
contiene il Metodo da tenersi per insegnare la Mi
on fu mai maggiore l’opportunità di ripetere col divino Alighieri; «
Che
chi pensasse al poderoso tema, E all’omero mortai
che fama divennero di Omero, « Di quel signor dell’altissimo canto.
Che
sovra gli altri com’aquila vola. » Chi fra voi n
urno, i Titani, e quei che Giove Dell’Erebo all’orror tolse tremendi,
Che
d’ogni arme maggior avean la forza: Ben cento man
le cose, la Grecia ne fa autore Deucalione, e l’Italia Fauno o Giano.
Che
che ne sia, è certo che i luoghi sacri agli Dei,
ole, Terra, o venerande Erinni Punitrici degli empj; a tutti io giuro
Che
‘l pudor di Briseide e la beltade Mi furon sacri,
iseri al caro lume della vita rapiti, e contender loro quell’onore «
Che
solo in terra avanzo è della morte? » Nulla di p
tristo ad un tempo) rivolgendo le faci indietro, accendevano il rogo.
Che
più: Fra le consorti, nell’Oriente, quando il cad
buon Pelèo d’un sacrifizio santo Già ti fe’ voto, e ti promise ancora
Che
la mia chioma a te sacrata un giorno Dispersa avr
uo poter; vuol altro il Fato; Debbo in Troia morir: tu soffri adunque
Che
del mio capo la recisa spoglia Sia sacro dono all
ai funerei ministri eccelsa pira Costrutta d’ammontati aridi tronchi,
Che
ha cento pie per ogni lato: in cima Vi si adagia
Achille, e dell’estinto il corpo Da capo a pie tutto ricopre, intanto
Che
le ammassate vittime d’ intorno Gli fan corona: i
, questo sangne accogli Di cui t’ inondo: esso è de’ Teucri il sangue
Che
giurai d’ immolarti; il voto io compio, Godi del
chio ostile al trascinar; lo copre D’ intorno Apollo d’azzurrina nube
Che
gli fa velo incontro al Sole, e scudo Ai strali p
Giove in Olimpia; la seconda edificò Ercole dopo la morte di Caco, «
Che
sotto il sasso di monte Aventino Di sangue fece s
gombro, e presso la sperata terra Già credea di vedere il facil volgo
Che
odia e mira i delitti. Ancor di Troia La schiava
redulo marito: — E la fanciulla Frigia intanto chinò la mesta faccia.
Che
l’ultimo rossor facea più bella, Come più dolce d
gli Achivi; gemito sommesso Danno i Frigi, e al dolor vietan la voce:
Che
le lacrime pie son colpa al vinto. Troadi, Atto
ari di Teutate e d’Eso orribile, sui quali palpitavano vittime umane.
Che
più: a Venere stessa uomini sacrificavano i Ceras
Nè giovò punto all’innocente e casta Povera verginella in tempo tale
Che
prima al re titol di padre desse; Che tolta dalla
Povera verginella in tempo tale Che prima al re titol di padre desse;
Che
tolta dalla man de’ suoi più cari Fu condotta all
ec. lib. i. Racconto del nunzio. Tutto dirò se non lo vieta il core.
Che
spavento e stupor tengono a gara, E ancor trema e
terra dechiiiava i lumi. Ma un gran portento all’improvviso oprossi.
Che
del vibrato ferro udì ciascuno Distintamente il c
piena Un dì torcesti l’atterrito raggio, Oggi ricalca la funesta via
Che
il padre t’insegnò. Che dico, o madre Infelice! l
atterrito raggio, Oggi ricalca la funesta via Che il padre t’insegnò.
Che
dico, o madre Infelice! la mia figlia già cinge A
tterrita Ifigenia rimira Tener le schiere un lato, e l’altro Achille,
Che
solo è in sua difesa, e solo i Greci Spaventa, e
a sorte: ai paventati tronchi Stan mille doni affissi: evvi la tromba
Che
degli emuli cocchi il volo accrebbe; D’Enomao il
, Dalle Furie condotto, occupa Atreo Il recesso fatai. Chi mi dà voce
Che
pareggi l’orror dell’alto eccesso, Onde nuovo cam
nca le dimore, e gli occhi in giro Torvamente rivolge. Eguale a tigre
Che
dell’avida bocca il furor primo Non sa dove conve
e qualità si trovarono riunite in Tebe, città della nominata regione.
Che
che ne sia, l’istoria dei natali di Giove, del pa
e Soavemente colla man divina La carezzava: al fianco eragli il Nilo,
Che
con sette onde dà tributo al mare. Tutto d’argent
ale il canestro: giunte erano appena Le giovinette nei fioriti prati,
Che
a vicenda traean vario diletto Di primavera dai b
cca Soavemente gli tergea la spuma, E lo baciava. Ei sì dolce muggia.
Che
del flauto Migdonio udire il suono Giurato avrest
smarrita, in nuova foggia Navigo: o sommo imperator dell’onde, Mercè.
Che
dico? innanzi a me tu sei: Questa liquida via non
ando sotto le mura d’Ilio) furono figli di Deidamia, da Giove delusa.
Che
dirò d’Ercole, prima lode di Giove, che in tante
bear nel tuo felice letto? Deh: vieni, o ninfa, fra quest’ombre meco
Che
fian oggi per noi dolce ricetto. Mentre alto è il
iove che d’averla era disposto, Fé’ nascer una nebbia oscura e folta,
Che
con la ninfa il tenesse nascosto; Qui lei fermata
on pensa di partirsi così tosto, Ma seco quel piacer sì grato prende.
Che
quel ch’ama e l’ottien beato rende. Gli occhi in
suoi furti e la sua fede. Noi ritrovando in cielo, è più che certa,
Che
sian contro di sé fraudi ed offese: Discende in t
giovenca mirò sdegnata e altiera; Pur fìnge e dice: ben felice toro,
Che
goderà così leggiadra fera! Cerca saper qual sia,
nto, e chi l’ha data a lui. Per troncar Giove ogni sospetto e guerra,
Che
la gelosa già nel suo cor sente. Perchè non ne ce
vuol quel dubbio in terra, Cerca che voglia a lei farne un presente.
Che
farai, Giove? a che risolvi il core? Quinci il do
una vita si dolce e sì gioiosa. Ma se nega alla sua sorella e moglie,
Che
sospetto darà sì lieve cosa? Amor vuol ch’ei comp
don, che tanto travagliata l’ave: Nè però tolto quel timor le viene,
Che
l’imprime nel cor cura si grave; Anzi tal gelosia
he l’imprime nel cor cura si grave; Anzi tal gelosia nel cor ritiene.
Che
nuovi inganni e nuovi furti pavé; Onde die il don
d un ch’avea cent’ occhi in testa. Argo avea nome il lucido pastore,
Che
le cose vedea per cento porte. Gli occhi in giro
opo, s’altrove ella s’aggira, Voltar per ben vederla il capo attorno:
Che
, se ben dietro a lui si parte o riede, Dinanzi ag
i occhi suoi sempre la vede. Lascia che pasca il dì l’erbose sponde,
Che
sparte son nel suo bel patrio regno; Acque fangos
lle volte vi si specchia, e fugge. Le Najadi non san che la vitella,
Che
vuol giocar con loro, e le scompiglia. Sia la per
so infelice al padre afflitto. Quando il mìsero padre in terra legge
Che
la fìo’lia da lui cercata tanto E quella, che cre
otessi almen finir con la mia morte L’intenso e dispietato dolor mio,
Che
a fin verrei di sì perversa sorte. Veggo or quant
r quanto mi neccia essere dio: Poich’ai morir mi son chiuse le porte.
Che
posso altro per te che dolerm’io? E mentre rotan
a spesso, la rimena e scioglie; Egli in cima d’un colle fa soggiorno,
Che
scopre la foresta intorno intorno. Giove non vuo
l la potente sua verga ritenne: E dove è quel pastor il cammin prese,
Che
in capo tien tante facelle accese. Come rozzo pa
capo tien tante facelle accese. Come rozzo pastor gli erra da canto,
Che
alle fresche erbe il suo gregge ristora: E con le
, E il pastor prega che voglia contare Come fu ritrovata la sampogna,
Che
sì soavemente ei sa sonare. ………………………………………… …………
ua lingua subito disgiugne; Con maggior sonno poi gli occhi suggella,
Che
con la verga sua toccando aggiugne; Sfodra la spa
la afflitta, e giugne male a male; E tal furor a lei nell’alma porse,
Che
tutto il mondo profuga trascorse. La spiritata b
er dall’aria in su l’arena. Gli uomini e gii animali urta e fracassa,
Che
a tempo a lei non san voltar la schiena: Tu solo,
e con gli occhi al ciel s’eresse, E con un sospirar, con un muggito,
Che
veramente parca che piangesse. Parca che con Giun
con grato modo e caldo affetto. Per ammorzare ogni rancore e sdegno.
Che
rode alla gelosa moglie il petto, Per l’acque giu
de alla gelosa moglie il petto, Per l’acque giura del tartareo regno,
Che
mai più non avrà di lei sospetto, E tenga il giur
anto più le par, men ella crede. Volea parlar per veder s’era quella
Che
esser solca, ma temea non muggire: Apre la bocca
siso sul soglio, col fulmine nella destra e coir asta nella sinistra.
Che
dirò del celebrato Giove Capitolino, cui doni man
azio le cinse, e con la fida terra Fece al campo corona. Altera Roma,
Che
fosti allor che la guerriera tromba Crollava i sa
amori, Onta e furore del vicino Giove, Così spiegava; fortunato foco.
Che
del mio Tazio a me le schiere insegni: O belle ag
pi Mezzo ascoste traspaiono a vicenda Celesti forme: tenera Amistade,
Che
più che in sé vive in altrui; l’ignudo Non fucato
Di compresso desio; di nebbie sgombra Placida Ilarità; Dolcezza umile
Che
l’ire ammorza, e Sofferenza accorta Che i tempi e
acida Ilarità; Dolcezza umile Che l’ire ammorza, e Sofferenza accorta
Che
i tempi esplora, e di contrasti ignara Condiscend
par che de’ miei; nè del mio zelo Chieggo mercé: solo Giunon rammenti
Che
vive in Troia un figlio mio. — Sorride Giuno cort
gran Nume, e nel suo volto ammira Un fior di leggiadrissima beltade,
Che
di dolcezza insolita l’inonda. Quasi dessa non pa
un sacro fuoco è questo Ch’alma e sensi m’investe. Il giorno istesso
Che
colsi il fior di tua beltà non arsi Di tale ardor
ta Profumato d’ambrosia amico letto; Mentre dal sen della dorata nube
Che
gli circonda, di nettaree stille Rugiada soavissi
Nascita di Marte narrata da Flora. Io già fui ninfa del beato campo,
Che
vide gli ozi della gente prima. Come fui bella io
o fuggo, e già mi segue, Mi raggiunge; io contrasto, ei fu più forte;
Che
dato avea della rapina il dritto Al lascivo frate
i alberi fronde ed erbe il suolo. Nella terra dotai possiedo un orto.
Che
educa l’aura, e che coli’ acqua irriga Limpido ri
leggiadramente i nostri doni: Gli rapiscon le Grazie, e tesson serti.
Che
son decoro dell’eterne chiome. I nuovi semi per l
Famoso pianto della Cipria dea, E d’altri mille che non han qui nome,
Che
dall’altrui dolor cresce il mio vanto? Marte deve
o soggiunse: Ah mi soccorri, Ten prego, o Ninfa: noi saprà quel forte
Che
paventi: e giurò l’acque di Stige, Pallor dei num
e Esultano, e per gioia il mar si spiana. Così rapide volano le rote,
Che
dall’asse ne pur si bagna il bronzo; E gli agili
per nevi e per gel canuto e curvo E da fiumi rigato. In questo monte.
Che
fu padre di Maia, avo di lui, Primamente fermossi
il caduceo, poteva essere nell’antico, giacché sono mancanti le mani.
Che
più? per ridurre la congettura a dimostrazione si
dagli eruditi come il mezzo più certo per decifrare simili ambiguità.
Che
se alcuno fosse curioso di apprendere onde avesse
io sopra Mercurio. Parafrasata Cillenio dio, gloria dell’avo Atlante,
Che
il fero culto del recente mondo Colla palestra or
a nova luce Provido pianto. Tu vinci gli occhi col miglior dei numi,
Che
per te lascia le Cimmerie grotte: Dical Argo, cui
Admeto, nella cui casa sofferse la mensa servile, e tutti i danni «
Che
l’arco dell’esilio pria saetta. » Sull’Amfriso p
llo il coro onorerà se canta A senno suo: chi al par di lui lo puote.
Che
siede a destra del gran Giove, e vince Con beata
ea l’amor del giovinetto Admeto: — Io Peane, diciam — fu l’inno primo
Che
sonava per Delfo, allorché Apollo Insegnò l’arte
be. Te Peane però si grida, o diede Cagione all’Inno la felice madre,
Che
all’uom ti partorì pronto soccorso. A te il livor
pido e sacro, che soave stilla, Dell’onde onor fra gli educati fiori.
Che
lusinga l’auretta e chiama il sole. Lezione d
ta terra fu inghiottito; altri che si fuse il rame onde era composto.
Che
che ne sia, il tempio di Apollo fu rifatto di pie
n tendeva alla Priamea reggia, E ai Frigi immersi in lacrimata gioia,
Che
avria, tremendo apertamente ai vinti, I figli asc
vergini prime, e voi di chiara Stirpe fanciulli, alla gran dea tutela
Che
l’error segue dei fugaci cervi, Del Lesbio metro
la sdegnosa la leggiadra testa, E accresce onor la libertà del crine,
Che
sopra i delicati omeri ondeggia. Fermasi, e volge
altari Latona, e senza incensi E il mio nume? Di me Tantalo è padre,
Che
solo fra i mortali un dì sedeva Alle mense celest
to obbedì con mormorio sommesso. Veneran sempre gli oltraggiati numi.
Che
sol questo alla plebe il re non vieta. Ode l’ardi
i voi superba, e fra le dee minore Solo di Giuno, non avrò gli altari
Che
i secoli onorar, nè fia chi adori Mia dubitata de
i veloci cavalli il tergo ornato Dalla porpora tiria, e regge briglie
Che
l’oro aggrava. Era tra queste Ismeno, Primo dolor
la faretra il fischio, e volge Sipilo il freno, qual nocchier presago
Che
scema ai venti con dimesse vele Il furor, quando
ell’ufficio pietoso. Apollo il core A lui trafìgge col fatato strale,
Che
svelle e spiccia colla vita il sangue. Damasitton
re volea; ma nell’incerto collo Giunge saetta, la rimbalza il sangue.
Che
schizzando rosseggia, e l’aer stride. Ultimo Ilio
fama e il pianto dei congiunti accusa Tanta ruina alla fastosa madre,
Che
tiene ira e stupor, perchè dei numi L’oltraggiata
iene ira e stupor, perchè dei numi L’oltraggiata ragione osi cotanto:
Che
posto fine il padre avea col brando Alla vita e a
Vincitrice, trionfa: e perchè dissi Vincitrice? a me più misera resta
Che
a te felice: dopo tante morti Ancor ti vinco. — C
a ne avrebbe ritratto qualche maggior grado di bellezza e di effetto.
Che
se s’insistesse ancora, e si opponesse, perchè di
per la sua clemenza col mezzo dell’arti agli uomini da lui insegnate.
Che
se si voglia vibrante i dardi contro il sespente
e l’arte donasse? — I lumi ammira Emuli delle stelle, e quella bocca.
Che
non basta il veder: loda le mani E le braccia, ch
o Con la vergine tal: rende paura Celer la ninfa, e la speranza Febo,
Che
più veloce la seguia: gli dava Ali l’amore; già i
qui: le mie membra trasforma, E perdi. — Appena i preghi avea compiti
Che
si aggrava torpor le membra e in molle Nodo il co
il core palpitare: i rami. Siccome membra abbraccia, e bacia il legno
Che
fugge i baci. In questi accenti il nume Sciolse l
, E cela dell’Jonia onda il muggito. Or la nave lulea fama è del mare
Che
al pallido nocchier non detta i voti. Qui del mon
vie che incatenato scorse Giugurta. Avresti, o Febo, onor di tempio,
Che
dieci navi nel Leucadio flutto Uno strale domò de
tto, ma le scorge il Sole Con gli occhi omniveggenti, e dice: figlio,
Che
vuoi? qual è del tuo venir la mente? Egli rispond
Disse; e dal capo il genitor depose I raggi tutti. Colla mano impone
Che
gli si accosti, indi l’abbraccia e dice: Degno tu
’avrai. Stige n’attesto ignota Ai lumi miei: — taceva appena il nume,
Che
fé dimanda del paterno cocchio Fetonte, e per un
drai nel mezzo: il resto, o figlio. Alla fortuna raccomando: io bramo
Che
sia di te più savia: a me si vieta Libertà di dim
ve era il carro, al giogo istesso Mancava il peso, onde simile a nave
Che
leggera al furor cede dei flutti, Salta il cocchi
che Borea ha vinto, e lascia Il pallido nocchiero al vento, ai voti,
Che
si faccia non sa: del ciel gran parte A tergo sta
mano alla fronte oppose, e disse L’universo scotendo: O Giove Padre,
Che
fanno in ciel le tue saette? Almeno Col tuo fuoco
ciatrice seguitando l’orme, Mostrami ove il mio re giaccia tra tanti,
Che
vivendo imitò tuoi studi santi. » Unisco la illu
l’ombre minori, allor che chiama L’Ianzio giovinetto i suoi compagni,
Che
gian pei boschi con error diverso: Compagni di fa
ad Atteon le chiome e il volto L’onde vendicatrici: e detti aggiunge
Che
nunzi sono del futuro danno: Or ti lice narrar ch
re sul non proprio volto: D’uomo ha solo il pensier. Rivolge in mente
Che
risolva? Se torni al regio tetto, O fra le selve
a il piano. Si rallenta alfine La fuga, e stanno ver la tomba antica,
Che
dei regi avi suoi l’ossa nasconde. Sospirando vi
cchi moribondi apre, rinserra, E spira. Fra le mie braccia non lascia
Che
sfigurato corpo: orrido oggetto Ove trionfa degli
i violento i suoi nemici incontra Il cinghial, più di folgore veloce,
Che
vien da nube che squarciata tuona. Cede ogni ramo
spuma Fulminava la bocca: e come vola Mole librata da potente ordigno
Che
ruina le mura, e l’alte torri Ove il chiuso solda
i rami Non afferrava di vicina querce Ove mirò sicuro il suo nemico,
Che
invano i denti nell’annoso tronco Consuma, e stan
suolo Cade: Peleo l’alzò: vibra Tegea Coler saetta dal curvato legno.
Che
alla belva strisciò l’orecchia: il sangue Sul ner
a, E si rizza sui pie: lasciava appena L’alzata scure le tremule dita
Che
all’audace il cinghiai s’avventa, e sbrana L’iner
a un dardo Giasone ancora: il caso Lo porta al tergo del fidato cane.
Che
si volge al signore e muor latrando. La man di Me
uerriera di Diana: a lei più cara Non fu veruna fra l’eletta schiera,
Che
sul Menalo stanca i pie veloci. È breve ogni favo
arve, a sé chiama Calisto: il piede Volge la ninfa impaurita, e crede
Che
sempre nella dea Giove si celi. Allorché vide le
ar: le pronte mani invano oppose Fra l’attonite ninfe al sen materno.
Che
esclama Ciutia: Dal mio ceto, o donna, Va lungi,
rivale sua: biechi rivolse Gli occhi, gridando: Al tuo fallir mancava
Che
tu feconda colla prole al mondo La nostra ingiuri
fregiavano a gara. Erano i fregi Nel petto della dea groppi di serpi.
Che
d’oro avean le scaglie, e cento intrichi Facean g
testa rappresentata in gemma han travedute la immagine della Verità.
Che
gli antichi per altro supponessero la spoglia ist
il capo immortai grava del pondo Dell’elmo d’oro altocrestato, e tale
Che
porrla ricoprir coll ‘immensa ombra Cittadi e gen
lla nostra statua corrisponde colla riferita descrizione della parma.
Che
poi tale si fin gesse lo scudo di Pollade apparis
oppio stadio due volte sessanta Percorso aveva, qual di Leda i figli,
Che
stelle or sono: allo spartano Eurota Quindi si te
or sono: allo spartano Eurota Quindi si terse, e versò puro unguento,
Che
a lei stillar del proprio orto le piante, E le co
er erba, e fia che rechi a Palla Gentil lavacro: ma, Pelasgo, avverti
Che
alla reina involontari i lumi Tu non rivolga. Per
Custode delle tombe. Acuto grido Mise la madre, ed esclamò: Tremende,
Che
festi? così siete, o dive amiche? Toglieste gii o
il bello Adon: piangon gli Amori, Accompagnando il fiero mio lamento.
Che
più in panni vermigli, o Vener, giaci? Sorgi, inf
, e di te seguir non m’è permesso. Ricevi, Proserpina, il mio marito;
Che
in ciò tu sei molto di me migliore; E tutto il be
ita, essendovi della morte bisogno perchè crescano i secoli avvenire.
Che
primo Vulcano ritrovasse il fuoco non è fuori di
d alta esce dall’onde e fuma. Ha sotto una spelonca, e grotte intorno
Che
de’ feri Ciclopi antri e fucine Son da lor fuochi
più visto lavor d’immenso scudo Di tempra impenetrabile, e più d’arte
Che
di materia prezioso: il cinge D’oro fiammante un
e Di sculti gruppi e svariate forme Sceltissimo vaghissimo contrasto,
Che
il guardo inebria ed il pensiero arresta. Qui ter
litta sposa; ma il canuto padre Dell’uccisor chiede la pena; ei giura
Che
assalito ferì: ciascuno ha seco Chi ‘1 ravvalora,
so ai nemici, e in folta macchia Stava acquattato e tacito aspettando
Che
pur giungesse pastoral masnada, Che di cornuta e
va acquattato e tacito aspettando Che pur giungesse pastoral masnada,
Che
di cornuta e di lanuta torma Traeva al campo nutr
il re del villaggio, e lieto ammira Le rusticali suo dovizie, intanto
Che
i fidi servi le spezzate membra Di pingue toro al
pide e pingui e di rappreso latte, Non senza i doni del licer celeste
Che
l’uom rintegra, agli anelanti sposi In cui fame n
ingendo un ballo intessono. Quelle in gonne di lin sottile e candido,
Che
scosse all’aura vagamente ondeggiano, Questi in f
r le file, e comandar le stragi: Sì di Vulcan l’arte divina espresse,
Che
a lui mostrato l’adulterio illustre Anco il Sol n
, o sommo imperator dell’ombre. Per cui corrono sempre i nostri fusi.
Che
, di tutto principio e fin, compensa Con le veci d
alme che han principio in Lete, Perchè tenti far forza e l’alte leggi
Che
i nostri stami ordirò, ed i fraterni Patti turban
Proserpina alla dea cura primiera. Sì giovenca non ama il suo torello
Che
calca appena la minuta arena Col pie mal fermo, e
ta sopra le medaglie con spighe nella mano, da Cerere non differisca.
Che
che ne sia di questa congettura, egli è certo che
oro opposto la Tirrena rabbia. In mezzo ad arsi scogli Etna s’inalza,
Che
dirà sempre i gigantei trionfi Ad Encelado tomba:
Ma benché bolla per soverchio ardore Sa serbar fede alle Sicane nevi,
Che
ne difende arcano gelo, e lambe Con fedel fumo l’
i pendenti assicuravano il segreto di ciò che si faceva nel sacrario.
Che
più? vi erano arcani, che dai Sacerdoti i più int
pendente faretra: in doppio cinto Tutta s’increspa la Gortinia veste,
Che
scende sino alle ginocchia, ed erra L’instabil De
Le Naidi sono, e con simile schiera Quelle ninfe le fan densa corona
Che
danno fama ai tuoi fonti, Crimniso, E a Pantagia
fama ai tuoi fonti, Crimniso, E a Pantagia che rota i sassi, e a Gela
Che
dà suo nome alla cìttade, e quella Che la marina
gia che rota i sassi, e a Gela Che dà suo nome alla cìttade, e quella
Che
la marina irresoluta nutre Nello stagno palustre,
Amazonia, deposti i scudi eguali Al cerchio della luna, esulta allora
Che
dalla depredata Orsa ritorna Ippolita, e che trae
dice A Zeffiro che siede in curva valle: Di primavera genitor soave,
Che
pei miei prati con lascivo volo Regni, e fai liet
sce Orione crudel, pallido Otranto L’insolito nitrito ode; i cavalli,
Che
caligine pasce, alzaro al Cielo L’intente orecchi
ad ogni frode. Io non mi affido Assai nei tetti dei Ciclopi, e tremo
Che
non sveli la fama il mio segreto. Me la famosa no
don spontanei dalle chiome, e bagna I fissi lumi involontario pianto!
Che
più? dei bossi tuoi se tento il suono Dan gemito
detti tuoi disperda il vento: Non sì gli ozii del ciel Giove avviliro
Che
alla difesa di cotanto pegno II suo fulmin non vi
to. Esiodo certamente non le dà per consorte, ma per figlio il Cielo.
Che
che ne sia, fu annoverata, come Eschilo lasciò sc
orosi guai Inonorati andranno. Or ella è teco, e dell’antico affanno.
Che
ricompensa un più propizio Fato, Dolce memoria su
fatiche Ofiria dolce ristoro Il molle sen di Psiche Irrequieta Diva,
Che
nelle gioie altrui t’angi e rattristi, Tu dall’in
avidi orecchi a tue menzogne apriva; Nè vide più nell’amator celato,
Che
spoglie anguine ed omicida artiglio, Fin che il t
; e Apollo è poi singolarmente il nume del vaticinio e degl’indovini.
Che
l’antivedìmento del futuro sia stato dalle rozze
membra in duri ministeri stanche, E nel travaglio le ripari: i sogni
Che
gareggian col ver vegga Alcione; Giuno lo vuol. —
che Cibele innamorata punisse in lui l’infedeltà e non lo spergiuro.
Che
che ne sia, Ati è celebre nella Mitologia, e noi
to le bianche man di neve porse Al tuo lieve timballo, o frigia Diva,
Che
di tromba ti tien luogo, e con cui Consacri, o ma
orrian pur questi occhi miei Mirar fiso là ‘ve tu sei Nella brev’ora,
Che
resta ancora Del suo furore Libero il core. Dunqu
rsi alla selva Per marcia forza Di furor, di follìa Costui ne sforza,
Che
baldanzoso Troppo e riottoso Dal mio domino sottr
Alti cipressi, negra edera e viti Cariche d’uva, e vi è la gelid’onda
Che
dalle bianche nevi Etna selvosa Ministra a me, ne
nto bene di me ti disse, e magro, Sottil mi vede ogni dì più. Se dico
Che
capo e piedi gran pena mi cruccia Onde si dolga a
la notte scherzar molte fanciulle Chiedono meco, e ridon tutte allora
Che
compiacere a lor desìo m’infìngo. Anch’io su terr
gura. — Colle Muse così l’amor pasceva Polifemo, e miglior vita traea
Che
se dato invidioso oro gli avesse. Teocrito , I
a Piangesse sotto d’un’aerea rupe. Un’armonia nei freddi antri sonava
Che
le tigri placò, trasse le querci. Tal mesto all’o
mesto all’ombra di frondoso pioppo Piange usignolo li smarriti figli,
Che
tolse al nido, non pennuti ancora, Insidiando l’a
Ove in un punto vidi dritte ratto Tre furie infernal di sangue tinte,
Che
membra femminili aveano ed atto, E con idre verdi
lucerne, e il tristo incenso Già si spargea dentro a’ sacrati fuochi,
Che
del nefando e sanguinoso effetto Quasi presaghi,
Generi strani e peregrini amanti? Ma presuppongo, e lo confermo vero.
Che
fosser degni di morir: che abbiamo Misere noi com
i commesso? or per qual colpa. Per qual cagion non mi lice esser pia?
Che
deggio io far del ferro? in che conviensì Coll’ar
e man, la forza e il core A l’ago, a l’aspo, alla conocchia e al fuso
Che
all’armi crude e bellicosi ferri. — Questo io dic
ue movendo addormentate braccia Più volte fosti per ferirle al ferro.
Che
tra pietà e timor dubbiosa ancora Aveva in mano.
lle luci t’avean cacciato il sonno. Quand’io ti dissi: Misero Linceo,
Che
sol tra tanti sei restato in vita, Levati e fuggi
berghi Per numerar gli esanimati corpi Dei miseri fratei generi suoi.
Che
si giacean nei mal bramati letti, Nel sangue loro
tti dall’Amore, come si vede in due gemme incise del Museo Stosciano.
Che
mi si permetta di portare simil giudizio sulla ra
gia. Ha con un groppo al collo Appeso un lordo ammanto, e con un palo
Che
gli fa remo, e con la vela, regge L’affumicato le
atta in prima le minori penne; Segue alla lunga la più hreve, e credi
Che
quasi colle cresca; in questa guisa Sorge zampogn
ce: Similemente agli splendor mondani Ordinò general ministra e duce,
Che
permutasse a tempo li ben vani Di gente in gente
è una gente impera, e l’altra langue. Seguendo lo giudicio di costei,
Che
è occulto come in erba l’angue. Vostro saver non
illare alfine, E da l’interno seno Uscirò allor maravigliosi accenti,
Che
tutti erano intenti A torsi in mano di mia mente
al pie di Macedonia i troni: Del mio poter fur doni I trionfali gridi
Che
al giovane Pelleo s’alzaro intorno. Quando de l’A
o. Seguimi dunque, e l’alma Col pensier non contrasti a tanto invito;
Che
neghittoso e lento Già non può star su l’ale il g
n può star su l’ale il gran momento. — Una felice donna ed immortale,
Che
da la mente è nata de gli Dei, (Allor risposi a l
iei pensieri alto sostiene, E gli avvolge per entro il suo gran lume.
Che
tutti i tuoi splendori adombra e preme: E se ben
con le stragi de le turbe perse Tingendo al mar di Salamina il volto,
Che
ancor s’ammira sanguinoso e bruno. Io vendicai l’
man di Bruto. Teco non tratterò l’alto furore Sterminator de’ regni:
Che
capace non sei de’ miei gran sdegni, Come non fos
atina che significa: A Giunone Istoria, Telefo e Prisco dedicarono. «
Che
gli antichi chiamassero Giunoni i Geni femminili
rappresentare di tutto il cielo poetico le avventure più dilettevoli.
Che
questa sorta di danze fosse diretta dalla Musa Po
el manto è ancor più chiaramente indicata nel bassorilievo Colonna. «
Che
più? in simile attitudine esistono ancora due sta
giace nella veste perché il vento non sveli niente onde si vergogni.
Che
soave respiro, o.Bacco: tu baciandola, ne dirai s
rore lo inganna: è difficile di persuaderlo con gli oggetti presenti.
Che
ciò vi basti. Contemplate adesso la pittura: la s
l dì che, vincitor nell’armi. Disperso i Traci avea di Lenno il Duce,
Che
tesser navi osò di fragil canna: Lieto pel mar mo
zzo Vola lieta la Fama. Era di Codro Eurinome pudica ai lari accanto,
Che
dalle cure attrita il casto letto Conserva, e sem
dell’ arbor sulla cima assiso La madre, qual lion tremendo, il figlio
Che
con lo dio combatte, e lui mostrava Alle Baccanti
ne non son, fiera non vedi: Crudel, perdona al parto tuo: quel sangue
Che
versi è sangue del tuo figlio: io sono Penteo: tu
stra, il ferreo Marte, armato Di lancia, ebbe stupor; mirò la figlia,
Che
senza ferro già vibrava il tirso Uccisor dei leon
mani? il tuo lion rimira, Riconosci il tuo figlio. Il premio è questo
Che
rendi, o Bacco, a chi nutriati? Illustri Doni mi
a madre insana, Penteo, infelice: il reo fu Bacco: Agave E innocente.
Che
dico? ancor di sano’ue Grondano le mie mani, e pe
’ime sue parti lo spumante flutto: Nell’aperto Ocean sorge la fronte,
Che
sfida il cielo e le tempeste. Siede Ino già sopra
Andromeda fu. Le rupi istesse Già invidia, e chiama fortunati i lacci
Che
le avvincon le membra; e poiché seppe Da lei la c
do Erigono: nei suoi sonni di pianto Desiava abbracciarlo, e le parea
Che
contro a lei dalla paterna gola Escisse il sangue
compagno, il mesto cane, E al suo doler si duole. Ahi l’arbor stesso
Che
sorge accanto alla paterna tomba La furiosa asces
vano quel tirso, onde Euripide chiama la ferula bene ornata di tirso.
Che
poi quest’aste, le quali si veggono nei marmi, e
le tragedie di Eschilo presso Aristofane nelle Rane è devoluto a lui.
Che
più? sul sepolcro di Sofocle fu posta la statua d
e dagli scultori in Grecia e in E’2ritto, così è descritto dai poeti.
Che
se gli Arcadi ingentilirono il loro Pan in qualch
steriorità di un’altro, che già ne somministri non leggieri sospetti.
Che
se mi si chiedesse qual può esser stata l’origine
dell’ antico, e per la notizia dei costumi. Bacco indiano barbato. «
Che
le immagini simili al presente, rare al ^erto in
Nonno, siede senza freno il fanciullo Ampelo. Vittoria di Bacco. «
Che
nelle favole Bacchiche siansi trasfuse le imprese
pari a quella di Anfione : « Ma quelle donne aiutino il mio verso, «
Che
aiutaro Anfione a chiuder Tebe, « Sì che dal fatt
i mancati in qualsivoglia regione del mondo : anche Dante diceva, «
Che
le terre d’Italia tutte piene « Son di tiranni, e
ente da Virgilio stesso : « Lo mio Maestro disse : Quegli è Caco «
Che
sotto il sasso di monte Aventino « Di sangue fece
due versi e mezzo, facendo dire a Virgilio : « …………Quegli è Nesso «
Che
morì per la bella Deianira, « E fe’ di sè la vend
« …..Se Castore e Polluce « Fossero in compagnia di quello specchio «
Che
su e giù del suo lume conduce100 « Tu vedresti i
sue stazioni nell’ascendere al Paradiso : « ……………io vidi il segno «
Che
segue il Tauro, e fui dentro da esso. » Al qual
irgilio : « ……………….. Forse « Tu credi che qui sia ‘l Duca d’Atene, «
Che
su nel mondo la morte ti porse ? « Partiti, besti
Cicilian che mugghiò prima « Col pianto di colui (e ciò fu dritto), «
Che
l’avea temperato con sua lima, « Mugghiava con la
Egina il popol tutto infermo, « Quando fu l’ær sì pien di malizia, «
Che
gli animali, infino al picciol vermo, « Cascaron
in cui fu cangiato Ganimede : « In quella parte del giovinett’anno «
Che
‘lSole i crin sotto l’I]Aquario tempra, « E già l
se Ifigènia il suo bel volto « E fe’ pianger di sè i folli e i savi «
Che
udîr parlar di così fatto cólto. » Secondo altri
se, ragionandosi, agli orecchi « Ti venne mai di Palamede il nome, «
Che
nomato e pregiato e glorïoso, « E da Belo altame
xxvi dell’Inferno. Dante pose nel Limbo « ………. il grande Achille «
Che
con amore alfine combatteo ; » ma nell’Inferno i
Pentesilèa l’armate schiere « Dell’Amazzoni sue : guerriera ardita «
Che
succinta, e ristretta in fregio d’oro « L’adusta
se ne sparse il grido. « Dentro al suo cieco ventre e nelle grotte, «
Che
molte erano e grandi in sì gran mole, « Rinchiuse
per l’esercito greco se fossero periti tutti questi illustri Eroi, «
Che
fur Tessandro e Stenelo ed Ulisse, « Acamante e T
mezzo alle argive schiere e trasportarsi in Italia, ove fondò Padova.
Che
anche Dante avesse di lui questa opinione lo dimo
e molto errò, poi ch’ebbe a terra « Gittate d’Ilïon le sacre mura ; «
Che
città vide molte e delle genti « L’indol conobbe
ompagni a ricondur ; ma indarno « Ricondur desiava i suoi compagni, «
Che
delle colpe lor tutti periro. » (Odiss., i. Trad
attero a una real fanciulla, « Del Lestrìgone Antifate alla figlia, «
Che
del fonte d’Artacia, onde costuma « Il cittadino
ditò con man tetto del padre. « Tocco ne aveano il limitare appena, «
Che
femmina trovâr di sì gran mole, « Che rassembrava
ne aveano il limitare appena, « Che femmina trovâr di sì gran mole, «
Che
rassembrava una montagna ; e un gelo « Si sentiro
o, che disegnò lor tosto « Morte barbara e orrenda. Uno afferronne, «
Che
gli fu cena ; gli altri due con fuga « Precipitos
ti alla vista. Immense pietre « Così dai monti a fulminar si diero, «
Che
d’uomini spiranti e infranti legni « Sorse nel po
o sentier : Scilla da un lato, « Dall’altro era l’orribile Cariddi, «
Che
del mare inghiottia l’onde spumose. « Sempre che
in molto rilucente foco, « Mormorava bollendo ; e i larghi sprazzi, «
Che
andavan sino al cielo in vetta d’ambo « Gli scogl
i compagni dal naviglio alzava, « E innanzi divoravali allo speco, «
Che
dolenti mettean grida, e le mani « Nel gran disas
rallentò la rabbia : « Se non che sopraggiunse un Austro in fretta, «
Che
, noiandomi forte, in vêr Cariddi « Ricondur mi vo
a grotta di Scilla e la corrente « Mi ritrovai della fatal vorago, «
Che
in quel punto inghiottia le salse spume. « Io sla
’ombra ricoprian Cariddi. « Là dunque io m’attenea, bramando sempre «
Che
rigettati dall’orrendo abisso « Fosser gli avanzi
gettâr dell’Ogigia isola, dove « Calipso alberga, la divina Ninfa, «
Che
raccoglieami amica, e in molte guise « Mi confort
, e sonnacchioso e gonfio « Ruttar pezzi di carne e sangue e vino, «
Che
ne restrinse. Ed invocati in prima « I santi Numi
dio Evo. Di Achille dice soltanto : « …… e vidi il grande Achille «
Che
con amore alfine combatteo. » Ma di Ulisse ragio
elle già dell’altro polo « Vedea la notte, e il nostro tanto basso, «
Che
non usciva fuor del marin suolo. « Cinque volte r
del scitico Marte i santi Numi « Adorando, porgea preghiere umili, «
Che
di sì fiera e portentosa vista « Mi si togliesse,
tutto smarrito m’arrestai. « Io credo ch’ei credette ch’io credesse «
Che
tante voci uscisser tra que’bronchi « Da gente ch
poi ribatter le convenne160 « Li duo serpenti avvolti colla verga, «
Che
riavesse le maschili penne. » La qual favola sig
l seno « D’aspro gelato verme, « Due volanti spedia draghi crudeli, «
Che
ratti entrâr le soglie, « Ove del rege partoria l
a Esperia la Spagna, perchè più lontana dalla stessa parte. 89. «
Che
giova nelle fata dar di cozzo ? « Cerbero vostro,
: « …..Nella vacca entrò Pasife ; » e poco più oltre aggiunge : «
Che
s’imbestiò nelle imbestiate schegge ; » e nel Ca
te schegge ; » e nel Canto xii dell’ Inferno parla del Minotauro, «
Che
fu concetto nella falsa vacca. » 102. « Ica
fte alla sua prima mancia ; « Cui più si convenia dicer : Mal feci, «
Che
, servando, far peggio ; e così stolto Ritrovar pu
e delle Arpie ai Troiani : « Quivi le brutte Arpie lor nido fanno, «
Che
cacciar delle Strofade i Troiani « Con tristo ann
i chi essa era figlia e la sua malaugurata predilezione per Enea : «
Che
più non arse la figlia di Belo, « Noiando ed a Si
te asserisce ancora di aver veduto nel Limbo « ………….il re Latino «
Che
con Lavina sua figlia sedea. » 153. « Novam ip
uale egli venia da lui produtto, Tra sé il godea la fortunata gente ;
Che
, spregiando condir le lor vivande, Mangiavan corn
nèttare e latte e i fiumi e i rivi. Oh fortunata età ! felice gente,
Che
ti trovasti in cosi nobili anni ; Che avesti il
fortunata età ! felice gente, Che ti trovasti in cosi nobili anni ;
Che
avesti il corpo libero e la mente, Questa da’ rei
rti la terza età nome conforme A quel che trovò poi l’ ingegno umano,
Che
nacque all’ uom si vano e si difforme, E li fece
v’era falsità, non v’era inganno ; Come fu nella quarta età più dura
Che
dal ferro pigliò nome e natura. Età del ferro. Il
. Il cittadin più cortese che saggio Alberga con amor persone infide,
Che
scannan poi, per rubarlo nel letto, Lui che con t
ccendon l’aspre ed orride giornate Piene di sanguinosi alti perigli,
Che
spingono a morir le genti armate Sotto l’ offese
Virgilio inverso me queste cotali Parole usò, e mai non furo strenne
Che
fosser di piacere a queste iguali. Dante, Purg.,
d’un giorno è la vita mortale, Nubilo, breve, freddo e pien di noja,
Che
può bella parer, ma nulla vale ? Qui l’umana sper
Di quel candido foco una scintilla Spira la Dea nell’ anime gentili,
Che
recando con sè parte del cielo, Sotto spoglie mor
o Sole, Febo, o padre del giorno ; Lo ministro maggior della natura,
Che
del valor del cielo il mondo imprenta, E col suo
mosso a compassione di tanta miseria, E la miseria dell’avaro Mida,
Che
segui alla sua dimanda ingorda, Per la qual sempr
terra che cotanto piacque A Venere ; e ’n quel tempo a lei fu sacra,
Che
’l ver nascoso e sconosciuto giacque…. Ed anco è
co è di valor si nuda e macra, Tanto ritien del suo primo esser vile,
Che
par dolce a’cattivi, ed a’buoni acra. (Petr., Tr
rono Aello, Ocipeta e Celeno. Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
Che
cacciâr delle Strofade i Trojani Con tristo annun
uosi e ribellanti Tal fra lor fanno, e per quei chiostri, un fremito,
Che
ne trema la terra, e n’urla il monte ; Ed ei lor
Sicilia rincontro a Scilla (202) : Come fa l’onda là sopra Cariddi,
Che
si frange con quella in cui s’intoppa…. (Dante,
o erge le braccia annose al cielo Un olmo opaco e grande, ove si dice
Che
s’annidano i sogni, e ch’ogni fronda V’ha la sua
ni Erilo e Gerïone, e con Medusa Le Gorgoni sorelle, e l’empie Arpie,
Che
son vergini insieme, augelli e cagne. (Eneid., l
diviso in due vaste regioni : l’una era « la valle d’abisso dolorosa,
Che
tuono accoglie d’infiniti guai ; Oscura, profonda
o Là dove molto pianto mi percote. Io venni in loco d’ogni luce muto,
Che
mugghia, come fa mar per tempesta, Se da contrari
bre : ….. È questa una campagna Con un ær più largo, e con la terra
Che
di un lume di porpora é vestita, Ed ha ’l suo sol
ea, vi facea far le grida. Dentro dal monte sta dritto un gran veglio
Che
tien volte le spalle inver Damiata,49 E Roma gua
’impeto : ………un fiume è questo Fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago,
Che
bolle e frange, e col suo negro loto Si devolve i
a ; ha con un groppo al collo Appeso un lordo ammanto ; e con un palo
Che
gli fa remo, e con la vela regge L’affumicato leg
…. in un punto vidi dritte ratto Tre furie infernal di sangue tinte,
Che
membra femminili avean ed atto ; E con idre verdi
alma in Dio si riconforte, E ’l cor che ’n sè medesmo forse è lasso ;
Che
altro che un sospir breve è la morte ? Ma ben si
Sisifo (245), per aver conquistato l’Elide s’empì di tanto orgoglio,
Che
temerario veramente ed empio Fu di voler, quale i
sse per man del padre eterno D’altro fulmine il colpo e d’altro vampo
Che
di tede e di fumo ; e degno ancora Che nel baratr
lmine il colpo e d’altro vampo Che di tede e di fumo ; e degno ancora
Che
nel baratro andasse. (Virgilio, Eneide, traduzio
amente Io tormentava. 249. Tizio, Quel della terra smisurato alunno,
Che
tien, disteso, di campagna quanto Un giogo in nov
o a patire nel Tartaro (215), dove … ha sopra un famelico avvoltore,
Che
con l’adunco rostro al cor d’intorno Gli picchia
n mai lo scema, si che’l pasto eterno Ed eterna pur sia la pena sua ;
Che
fatto a chi lo scempia esca e ricetto, Del suo pr
….. Intorno agli omeri divini Pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
Che
il terror d’ ogn’intorno incoronava. Ivi era la C
ita sempre il tuo corpo. — Per dormire, coricati sul fianco destro. —
Che
le tue fauci non patiscano arsione, e che il pala
uoi colli il Tebro. Oggi, le umane Orme temendo, e de’poeti il vulgo,
Che
con lira straniera, evocatrice Di fantastiche lar
nno per entro le più riposte parti dei boschi. Così di « quella vaga,
Che
amor consunse, come sol vapore » (Dante, Parad.,
e, e andavano sempre limpide e pure ad unirsi a quelle d’Aretusa, ….
Che
di Grecia volve Per occulto cammin l’onda d’argen
lto cammin l’onda d’argento, Com’è l’antico grido ; e il greco Alfeo,
Che
dal fondo del mar non lungi s’alza, E costanti gl
e : Similemente agli splendor mondani Ordinò general ministra e duce,
Che
permutasse a tempo li ben vani, Di gente in gente
hè una gente impera e l’altra langue, Seguendo lo giudicio di costei,
Che
è occulto come in erba l’angue. Vostro saper non
a poesia, degna encomiatrice del merito, ha fatto Dea anche la Fama «
Che
trae l’uom del sepolcro, e in vita il serba, » da
in sul giorno l’amorosa stella Suol venir d’oriente innanzi al sole,
Che
s’accompagna volentier con ella, Cotal venia ; ed
h’ i’ vo’ dir in semplici parole ? Era dintorno il ciel tanto sereno,
Che
per tutto ’l desio ch’ardea nel core L’occhio mio
l giorno sopra tetti, e per le torri Sen va delle città spiando tutto
Che
si vede, e che s’ode ; e seminando Non men che ’l
il Foscolo nel ricordato inno : E quando sparve la celeste fiamma73
Che
la diva recato avea sul Tebro, Canta la Fama che
; E stava sulla fronte maestosa, Figlia della virtù, nobil fierezza,
Che
i tardi suoi timidi amici sprezza. Era costei la
ccesa in una man tenea, Nell’altra un specchio in guisa tal lucente,
Che
l’imagine mostra d’ogni oggetto, Non quale ei sem
, e tien lo viso chiuso » dice Virgilio a Dante nel IX dell’Inferno «
Che
se ’l Gorgon si mostra, e tu ’l vedessi, Nulla sa
più di tornare nel mondo. E il Petrarca dice : « il volto di Medusa,
Che
facea marmo diventar la gente. » Le mani poi di q
rata il seno D’aspro geloso verme, Duo volanti spedia draghi crudeli,
Che
ratti entràr le soglie, Ove del rege partoria la
la virtù, alla conquista dei veri beni : ……. Questa montagna è tale,
Che
sempre al cominciar di sotto è grave, E quanto uo
o ne fa una maravigliosa pittura : Ecco la fiera con la coda aguzza,
Che
passa i monti, e rompe muri ed armi ; Ecco colei
tai tele per Aragne imposte. Come talvolta stanno a riva i burchi,82
Che
parte sono in acqua e parte in terra, E come là t
. Nel vano tutta sua coda guizzava, Torcendo in su la venenosa forca
Che
a guisa di scorpion la punta armava. Ercole ucc
ei violenti, narra in altro modo il suo gastigo : …………Questi è Caco,
Che
sotto ’l sasso di monte Aventino Di sangue fece s
alcuni altri fra i principali eroi della favola. Il tessalo maestro
Che
di Tetide il figlio Guidò sul commin destro…. Già
o, Come mostrò già una ed altra fiata, Atamante divenne tanto insano,
Che
veggendo la moglie co’ duo figli Andar carcata da
ato Il Lamento di Orfeo. Qual fra quest’erme, inculte, orride rupi,
Che
han di nevi e di ghiaccio eterno manto, Echeggian
fastosa, e tu (sul ciglio Trattengo appena il pianto) o celi il nome
Che
sei figlia d’Edippo, oppur tu dei Dirlo, e arross
oltraggi, che sostenne Edippo, Questa infame pietà…. Si vil mi credi
Che
il padre, e vecchio, e sventurato, e cieco Io pos
io un discendente d’ Eaco ; ed era questi il prode Achille (536) ; 2°
Che
i Greci possedessero le frecce d’ Ercole (364) ;
le (536) ; 2° Che i Greci possedessero le frecce d’ Ercole (364) ; 3°
Che
rapissero da Troja il Palladio, statua di Minerva
l Palladio, statua di Minerva collocata nel tempio di quella Dea ; 4°
Che
impedissero ai cavalli di Reso (570) di bever le
ò lui dormendo in le sue braccia, Là onde poi li Greci il dipartiro ;
Che
mi scoss’io, si come dalla faccia Mi fuggi il son
ei compagni fec’io si acuti, Con questa orazion picciola, al cammino,
Che
appena poscia gli avrei ritenuti : E volta nostra
e stelle già dell’ alto polo Vedea la notte, e ’l nostro tanto basso,
Che
non sorgeva fuor del marin suolo. Cinque volte ra
Iliache mura mi aggirai tre volte, Nè aspettarti sostenni. Ora son io
Che
intrepido t’affronto, e darò morte, O l’avrò. Ma
O l’avrò. Ma gli Dei, fidi custodi De’giuramenti, testimon ne sieno,
Che
se Giove l’onor di tua caduta Mi concede, non io
e La genitrice i crini, e via gittando Il regai velo, un ululato mise
Che
alle stelle n’andò. Plorava il padre Miseramente,
la tomba. Oh fosse ei morto Fra le mie braccia almen ! Cosi la madre,
Che
sventurata partorillo, e io stesso Sfogo avremmo
ginocchia d’Achille, e singhiozzando La tremenda baciò destra omicida
Che
di tanti suoi figli orbo lo fece… Achille stupì
chi lo soccorra, e all’imminente Periglio il tolga. Nondimeno udendo
Che
tu sei vivo, si conforta, e spera Ad ogn’istante
prima poi ribatter le convenne Li duo serpenti avvolti con la verga,
Che
riavesse le maschili penne.124 Aronta è quei ch
le maschili penne.124 Aronta è quei ch’al ventre gli s’atterga,125
Che
nei monti di Luni, dove ronca Lo Carrarese che di
r non gli era la veduta tronca. E quella che ricopre le mammelle,126
Che
tu non vedi, con le trecce sciolte, E ha di là og
e, E spruzzar riverenti e paurose La sudata cervice e il casto petto,
Che
i lunghi crin discorrenti dal collo Coprian, sicc
recce immemori, le lepri Gli trescavano attorno, e i capri e i cervi,
Che
non più il dardo suo dritto fischiava ; Però che
Esperta mano insegna La via d’onor più degna : Ma stolto è ben colui,
Che
ignora il calle, e vuol mostrarlo altrui. Sol que
gran vanti ascende Senza travagli. E l’alma a cure più lodate inchina
Che
non all’ôr ; ma come Leva in alto i mortali aura
vero Al suol gli sbalza, e ne disperde il nome. Nati, cader bisogna :
Che
siam noi dunque o che non siam ? Leggiero Veder d
van l’artiglio ; Ella stessa è strazio a sè. Chi verso un bene aspira
Che
aver non può, delira. Ma chi nell’arche tacite Te
piuttosto audacia che valore la competenza di così delicato garzone.
Che
se la vergogna del vano colpo non l’avesse animat
persegue, invan sottrarsi Tenta l’uom, benchè forte. Il di seguente,
Che
al surgere del sole era il certame Delle quadrigh
estrier, l’ottavo ; e della sacra Atene il nono ; e di Beozia l’altro
Che
li diece compiea. Gli arbitri eletti Trasser le s
lei si vive con l’amico estinto, E l’estinto con noi, se pia la terra
Che
lo raccolse infante e lo nutriva, Nel suo grembo
al § 29, il nascimento di Giove. Rea è il soprannome di Cibele. 49.
Che
il tempo volga le spalle all’oriente e il viso al
di giuramento, e dicevano : Me Dius Fidius sottintendendo adjuvet : «
Che
lo dio Fidio mi sia propizio ! » 75. Virgilio a
3. Retrogrado cammino. 124. Prima di tornare ad esser maschio. 125.
Che
accosta il tergo al ventre di lui, atteso il narr
quanto parvogli, una donna « Io son, cantava, io son dolce sirena «
Che
i marinari in mezzo al mar dismago, « Tanto son d
ignore e maestro, Virgilio : « Vedesti, disse, quell’antica strega «
Che
sola sovra noi omai si piagne ? « Vedesti come l’
te correnti di acqua del mare : « Come fa l’onda là sovra Cariddi, «
Che
si frange con quella in cui s’intoppa, « Così con
descrive il poeta più particolarmente « …… una balena, la maggiore «
Che
mai per tutto il mar veduta fosse : « Undici pass
elle mine il ferro adopra, « La terra, ovunque si fa via, sospende, «
Che
subita ruina non lo cuopra, « Mentre mal cauto al
al suo lavoro intende. « Da un amo all’altro l’àncora è tanto alta, «
Che
non v’arriva Orlando, se non salta. « Messo il pu
fondo e fa salir l’arene. « Sentendo l’acqua il cavalier di Francia «
Che
troppo abbonda, a nuoto fuor ne viene : « Lascià
e scior non se ne puote. « Di bocca il sangue in tanta copia fonde, «
Che
questo oggi il mar Rosso si può dire, « Dove in t
il mar Rosso si può dire, « Dove in tal guisa ella percuote l’onde, «
Che
insino al fondo le vedreste aprire : « Ed or ne b
’alto Oceano, oblïando « Lo sparso gregge : e sì il tumulto cresce, «
Che
fatto al carro i suoi delfini porre, « Quel dì Ne
o trasse il pesce orrendo, « Col qual non bisognò più affaticarsi ; «
Che
pel travaglio e per l’avuta pena « Prima morì che
ia « Qui vidit mare turgidum et « Infames scopulos Acroceraunia ? »
Che
direbbe ora di più, sapendo le ardite e pericolos
letto che il Montone « Con tutti e quattro i piè copre ed inforca, «
Che
cotesta cortese opinïone « Ti fia chiovata in mez
Ivi con segni e con parole ornate « Issifile ingannò la giovinetta, «
Che
prima tutte l’altre avea ingannate ; » e poi tra
a i dannati che eran puniti « Da quei Dimon cornuti con gran ferze «
Che
li battean crudelmente di retro ; » e soggiunge
ia il ventre lor dispensa, « Tal che gli è forza d’otturare i nasi, «
Che
non si può patir la puzza immensa. « Astolfo, com
lpo, e senza effetto cala : « E quei non vi lasciâr piatto nè coppa «
Che
fosse intatta ; nè sgombrâr la sala « Prima che l
ersi stessi dell’Ariosto ; « E questo fu d’orribil suono un corno «
Che
fa fuggire ognun che l’ode intorno. « Dico che ‘l
a, fa fuggir la gente. « Non può trovarsi al mondo un cor sì buono, «
Che
non possa fuggir come lo sente. « Rumor di vento
a e geme e disperato stassi. « Viene al duca del corno rimembranza, «
Che
suole aitarlo ai perigliosi passi ; « E conchiude
ifo ed il bel corno afferra ; « E con cenni allo scalco poi comanda «
Che
riponga la mensa e la vivanda. « E così in una lo
si della montagna alla radice « Entra sotterra una profonda grotta, «
Che
certissima porta esser si dice « Di chi all’infer
« E s’io al vero son timido amico, « Temo di perder vita tra coloro «
Che
questo tempo chiameranno antico. » (Parad., Cant
ente nelle campagne, si abusa, in tutte quante le novelle e favole «
Che
raccontano ai putti le bisavole243. » Tutta la
n dimonio con occhi di bragia, « Un vecchio bianco per antico pelo, «
Che
intorno agli occhi avea di fiamme ruote. » Egli
1. Non vi mancano di certo : « Tre Furie infernal di sangue tinte, «
Che
membra femminili aveano ed atto, « E con idre ver
ed inoltre ad una specie di vipere. 240. « Colà donde si niega «
Che
più ritorni alcun, » disse il Parini traducendo
altro nel core. » 242. « Quando noi fummo fatti tanto avante, «
Che
al mio Maestro piacque di mostrarmi « La creatura
più volgari novelle : « Mentre aspettiamo, in gran piacer sedendo, «
Che
da cacciar ritorni il signor nostro, « Vedemo l’
cchi mai vi sia dimostro ; « Meglio è per fama aver notizia d’esso, «
Che
andargli, sì che lo veggiate, appresso. « Non gli
, il sen bavoso e sporco. « Correndo viene, e ’l muso a guisa porta «
Che
’l bracco suol, quando entra in sulla traccia. «
o si lasciò nè il seno voto : « Un suo capace zaino empissene anco, «
Che
gli pendea, come a pastor, dal fianco. » E per i
arne meglio gli sapeva ; « E prima il fa veder ch’all’antro arrivi, «
Che
tre dei nostri giovini che aveva, « Tutti li mang
l divino. » (Purg., xxv, 79.) « Cotal vantaggio ha questa Tolomea «
Che
spesse volte l’anima ci cade « Innanzi che Atropò
ifolco per mercede, a cui « Più scarso il cibo difendesse i giorni, «
Che
del Mondo defunto aver l’impero. « Su via, ciò la
n che v’è dentro o spirto o mente « O anima che sia dell’Universo ; «
Che
sparsa per lo tutto e per le parti « Di sì gran m
e ; chè ’l corporeo lezzo « Sì l’ha per lungo suo contagio infette, «
Che
scevre anco dal corpo, in nuova guisa « Le tien c
an, coi piè puntando, « Spingea ; ma giunto in sul ciglion non era, «
Che
risospinta da un poter supremo, « Rotolavasi rapi
lo di Sisifo, era sì pien d’orgoglio per aver conquistato l’Elide, «
Che
temerario veramente ed empio « Fu di voler, quale
o scalpitar de’suoi ronzini, « I tuoni, i nembi, i folgori imitava, «
Che
imitar non si ponno. E ben fu degno « Ch’ei prova
per man del padre eterno « D’altro fulmine il colpo e d’altro vampo «
Che
di tede e di fumo ; e degno ancora « Che nel bara
e il colpo e d’altro vampo « Che di tede e di fumo ; e degno ancora «
Che
nel baratro andasse »269. (Virgilio, Eneide, vi.
E se tu ben la tua Fisica note, « Tu troverai non dopo molte carte, «
Che
l’arte vostra quella, quanto puote, « Segue, come
n devota ammirazione esclama : « O somma sapïenza, quanta è l’arte «
Che
mostri in Cielo, in Terra e nel mal mondo, « E qu
All’ Egregio uomo COMMENDATORE ANTONIO MORDINI Prefetto di napoli
Che
alla valente operosità della vita politica Intes
che ci eravamo imposti, noi faremo di pubblica ragione questa opera.
Che
i nostri concittadini accettino di buon animo la
l’Odissea come le più classiche opere della greca poesia, 10 11
Che
più ? l’erfino negli oscuri ed osceni saturnali d
genito di Laumedonte sposò, e da cui ebbe due figli Esepo, e Pevaso.
Che
al buon Bucolïone un di produsse La Najade gentil
Cipro con Mirra sua figlia. Si sapea ben per Cipro il folle incesto,
Che
già commesso Mirra avea col padre : Ovidio, Meta
ccia. 201. Agraulo. V. Aglauro. 202. Agray. V. Agrao. 203. Agresto. —
Che
vale anche campestre, soprannome dato al Dio Pane
fosi, Libro XIII. Trad. di Dell’Anguillara). …… Chi quell’altro sia
Che
ha membra di gigante, e va sovrano Degli omeri e
n terribile piglio e misurava A vasti passi il suol, l’asta crollando
Che
lunga sul terren l’ombra spandea. (Omero Iliade l
a di loro alla vita esce, Con lei nasce un abeto, un pino, un faggio,
Che
verso il cielo alteramente cresce : E si domanda
conservavasi illeso perchè Venere lo avea cosparso d’ambrosia. …………
Che
notte e di sollerita la figlia Di Giove, Cilerea,
ggio, o della plehe degli Dei ; Ma tra’grandi celesti il più possente
Che
fa spesso cader di mano a Marte La sanguinosa spa
a di far ritorno. In greco αναγογη significa ritorno. 365. Anaidia. —
Che
significa impudenza. Secondo Cicerone e Pausania,
sce un nume, ed io da tergo Lui conobbi all’incesso appunto in quella
Che
si partiva, e me l’avvisa il core Che di battagli
i all’incesso appunto in quella Che si partiva, e me l’avvisa il core
Che
di battaglia più che mai bramoso Mi ferve in pett
vivi venenosa, e tessi e pendi. Appena quel velen sopra le sparse,
Che
tolse al corpo il grande, il duro e’ l greve : Co
Un animal lanuginoso e breve : Un sottil piè venne ogni dito a farse,
Che
pende al retto resuplno, e leve ; Dal picciol cor
delle Amazzoni quando esse mossero guerra a Teseo. 531. Areotopoto. —
Che
significa gran bevitore di vino. Ateneo, nelle su
n quelle della fontana Aretusa. Ei cerca e non si parte, perchè vede
Che
più lunge il mio piè stampa non forma, Ed io fra
Giunone allora lo cangiò in paone. Argo avea nome il lucido pastore.
Che
le cose vedea per cento porte. Gli occhi in giro
n mezzo della selva una donzella, Ch’era sua madre, si com’era avanti
Che
madre fosse, incontro gli si fece. Donzella all’a
triste fato della loro città. Quivi le brutte Arpie lor nido fanno,
Che
cacciar delle Strofade i Troiani Con tristo anuun
pasa. — Gli Sciti sotto questo nome adoravano Venere. 599. Artipoo. —
Che
significa piede leggiero. Omero così chiama Marte
icevano invasi da furore Ascreo coloro che improvvisavano dei versi.
Che
da furor Ascreo spinti, e commossi S’odono ognor
ù sotto, e ’l mento torna Dentro in se stesso, e in modo vi si serra,
Che
la bocca vien muso, e guarda in terra. Ovidio. —
ta, Fu imperadrice di molte favelle. A vizio di lussuria fu si rotta,
Che
libito fè lecito in sua legge, Per torre il biasm
torre il biasmo in che era condotta. Ell’è Semiramis, di cui si legge
Che
succedette a Nino, e fu sua sposa, Tenne la terra
nfante che nel corpo era imperfetto Dell’infelice donna che s’accese.
Che
dal seme di Giove avea concetto, Del ventre ch’ap
fu il padre Bacco, e l’inventore Del miglior culto alla feconda vite,
Che
la dolce uva, e quel divin liquore Porge a sosteg
’offizio altrui che si conviene, E trova, mentre pensa andare avante,
Che
l’ascosa radice il piè ritiene. Accorti del lor f
Traged. trad. di A. Maffei. Non pria da se la dea la nube sgombra.
Che
di forma senil tutta si veste : Fa bianco il crin
capo, al dosso quella veste Dà, ch’una vecchia balia oggi usa ed ave,
Che
tien del cor di Semele la chiave. Ovidio. — Meta
di loro, e di destrier morello Presa la forma, alquante ne compresse
Che
sei puledre e sei gli partoriro. Queste talor ruz
avoloso gigante dice il Monti : Un’ altra furia di più acerba faccia
Che
in Flegra già del cielo assalse il muro E armò di
olse ad Achille, volendo ritenerla per sè. ….. e mi pensai dal punto
Che
dalla tenda dell’irato Achille Via menasti, o gra
a, riprese i suoi animali, dopo aver ucciso il ladro. Quegli è Caco,
Che
sotto il sasso di monte Aventino. Di sangue fece
o e suo figlio Arcaso in orsi : Quel si leggiadro e grazioso aspetto
Che
piacque tanto al gran rettor del cielo,. Divenne
tutti gli esercizii del corpo. Nè pria tenne de’piè salde le piante,
Che
d arco, di faretra e di nodosi Dardi, le mani e g
pre il lamento di spaventose grida. Come fa l’onda là sovra Cariddi,
Che
si frange con quella in cui s’intoppa, Cosi convi
rbi di lumi ? E svelar un destin che non mi lice Dalla patria sviar ?
Che
irrevocato Compiere si dovrà sull’infelice ? Che
Dalla patria sviar ? Che irrevocato Compiere si dovrà sull’infelice ?
Che
val d’un imminente orribil fato Squarciar la bend
à di credersi, con sua figlia, più bella di Giunone e delle Nereidi.
Che
non solo osó dir, che in tutto il mondo Di beltà
allor ciò che di Ceneo avvenne, E quasi ognun di noi giudizio diede.
Che
per lo troppo peso ch’ei sostenne, Fosse dell’ al
e Vide un augel ver la superna sede. Tanto veloce, coraggioso e bello
Che
fu da noi chiamato unico augello. Ovidio. — Meta
ne) Ercole dopo aver cacciati i Centauri dalla Tessaglia li disfece.
Che
giova a noi, se grande oltre misura Noi possediam
a a noi, se grande oltre misura Noi possediam questa terrena scorza ?
Che
giova a noi, se a noi l’alma natura Doppie le mem
nome suo Ciane l’appella, Nïnfa che l’à in custodia a piè del monte,
Che
preme di Tifeo la manca ascella. Ovidio — Metamo
alta esce de l’onde, e fuma. Ha sotto una spelonca, e grotte intorno,
Che
di feri Ciclopi, antrì e fucine Son da’ lor fochi
empo fu già che amava una fanciulla Febo in Tessaglia, nata Larissea,
Che
la beltà restar fatta avria nulla Di qual si vogl
ro amante, e che ad Apollo è rea ; E va per accusar l’ingrata e fella
Che
per nome Coronide s’appella. Ovidio — Metamorfos
armi : O mio dolce consorte. A che si folle affanno ? A gli dei piace
Che
cosi segua. A te quinci non lece Di trasportarmi.
mi. Il gran Giove mi vieta Ch’io sia teco a provar gli affanni tuoi :
Che
soffrir lunghi esigli, arar gran mari Ti converrà
ghi esigli, arar gran mari Ti converrà pria cff’al tuo seggio arrivi,
Che
fia poi ne l’Esperia, ove il Tirreno Tebro con pl
iamo figlia, e nuora a Venere, Nè donna lor, nè di lor donne ancella,
Che
la gran genitrice de gli dei Appo se tiemmi……… V
Una tenera figlia Acrisio avea. Nomata Danae, si leggiadra e bella,
Che
non donna mortal, ma vera dea Sembrava al viso, a
il destin della sua stella ; Ma il decreto fatal tanto gli spiacque,
Che
la fe’col figliuol gittar nell’acque. Ovidio. —
lla a proposito di quanto accennammo. L’Infamia di Creta era distesa
Che
fu concetta nella falsa vacca. Dante — Inferno —
lle penne il dosso priva : Nè d’uopo gli è d’andar cercando altrove ;
Che
quivi appresso al re talmente è viva La fama dell
La fama delle sue stupende prove, E con tal premio Cocalo il ritiene,
Che
riveder più non si cura Atene. Ovidio.. — Metamo
ngue all’occhio asconde e vieta. Pioché la donna dal centauro intese.
Che
il sangue al morto amor potea dar forza. Perchè n
fior tale il lin rese, Ch’ogni occhio a creder, che vi guarda, sforza
Che
i vaghi e sparsi fior ch’ornan il panno, Non denn
nestinguibil flamma, a tremolio Simigliante del vivo astro d’autunno,
Che
lavato nel mar splende più bello, Tal mandava dal
E prima poi ribatter le convenne Li duo serpenti avvolti colla verga.
Che
riavesse le maschili penne. Dante — Inferno — Ca
zzoni, la quale morì annegata appunto nel mare Egeo. 1573. Egemone. —
Che
significa conduttrice. Era questo il soprannome c
gli attribuisce cento braccia e cinquanta teste. …. In quella guisa
Che
si dice Egeon con cento braccia E cento mani, da
sa. Intorno agli omeri divini Pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
Che
il terror d’ogni intorno incoronava, Ivi era la C
ttavo anno ritornò d’Atene, Per sua sciagura, il pari ai numi Oreste,
Che
il perfido assassin del padre illustre Spogliò di
a qual Testio ebbe per padre : Giove in forma di cigno oprò di sorte,
Che
d’un uovo e tre figli la fè madre, Fra gli altri
le superbe già Trojane squadre : Dico colei. ch’ebbe si raro il volto
Che
ne fu il mondo sotto sopra volto. Ovidio — Metam
Caonia. — V. Caone. …… e questa parte De la Caonia ad Eteno r. cadde
Che
dal nome dl Caône trojano Così l’ha detta. Virgi
l raro uccello Fenice, a proposito del quale Metastasio ha scritto :
Che
vi sia, ciascun lo dice Dove sia nessun lo sa. S
d’un sangue tal, d’un tanto regno Restava una sua figlia unica erede,
Che
già d’anni matura, e di bellezza Più d’ogni altra
petuosi e ribellanti Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito
Che
ne trema la terra e n’urla il monte. Ed ei lor so
er figli in casa ; ed ei congiunse Per nodo marital suore e fratelli,
Che
avean degli anni il più bel fior sul volto. Omer
verrà annoverato fra gli dei. Tal magnanimo eroe sarà il tuo figlio,
Che
leverassi allo stellante cielo, E tutti vincerà m
e ; e il mostro d’Erimanto : L’idra di Lerna ; ed uno stuol di fiere.
Che
mezzo han d’uomo e di destier natura, Trista, olt
a gli occhi e’l lume a l’antro. Non però si contenne il forte Alcide,
Che
d’un salto in quel baratro gittossi Per lo spirag
ghi fea l’infelice, e di quel vago Adornamento in sè godea : ma ratto
Che
dall’ostie e dai rami in su l’altare Surse la fia
ga alla patria eterna ed alma, E credo che ogni Dio ne sia contento ;
Che
s’ei portò laggiú per noi la palma Di mille impre
ve in un punto furon dritte ratto Tre furie infernal di sangue tinte,
Che
membra femminili avieno ed atto ; E con idre verd
on cœur. Racine — Andromaque — Acte IV. Scene IV. 1807. Ermopoli. —
Che
significa città di Mercurio. Era questo il nome d
alla famosa guerra di Tebe, fu fratello di Evadmo e figlio di Ifide.
Che
con sette falangi e sette duci Tutta cingono Tebe
: A questa abbi rispetto, Singhiozzante sclamava, a questa, o figlio,
Che
calmò, lo ricorda. i tuoi vagiti. Rientra, Ettorr
clito Eumeo, di cui fra tutti D’Ulisse i miglior servi alcun non era.
Che
i beni del padron meglio guardasse. Omero — Odis
o era seco, un giovanetto Il più hello, il più gaio e’l più leggiadro
Che
nel campo troiano arme vestisse : Ch’a pena avea
la sala e gli tagliarono il naso e le orecchie. …… il saporoso vino
Che
tracannato avidamente, e senza Modo e termine alc
atesche. E non fia il sol dimane Dal balcon d’Oriente uscito a pena.
Che
le mie genti e i miei sussidi avrete. Virgilio —
piendo ; e che al sol Tiresia, e a parte. Immolerei nerissimo ariete,
Che
della greggia mia pasca il più bello, Fatte ai ma
giorno sopra tetti, e per le torri Sen va de le città, spïando tutto
Che
si vede e che s’ode : e seminando, Non men che ’l
i. In questo porto ai Feacesi conto Dirittamente entrò l’agile nave,
Che
sul lido andò mezza : di si forti Remigatori la s
re, Mi maledisse, ed invocò sul mio Capo l’orrende Eumenidi. pregando
Che
mal concesso non mi fosse il porre Sul suo ginocc
non seppe più distaccarsi ; Son io divino Achille, io mi son quegli
Che
ti crebbe qual sei, che caramente T’amai ; …… Om
v’era falsità, non v’era Inganno, Come fu nella quarta età più dura.
Che
dal Ferro pigliò nome e natura. Il ver, la fede e
tu non Sia dell’arbor mio. Per quel che mostran l’animo e la fronte.
Che
ti scopron figliuol d’un grande Dio : Non mente F
mpir meglio il tuo desio : Chiedi pur quel che più t’aggrada e giova.
Che
di questo vedrai più certa prova. Della proferta
di Cirene, madre di Aristea. Al suon delle querele in quella stanza.
Che
all’imo soggiacea dell’alto fonte Cirene si destò
abbandoni la terra col lento rammarico di un amante. 2017. Filolao —
Che
significa salutare agli uomini. Con questo glorio
o, e se talor le torna a mente, Tanta pietà per lui la move e ancide,
Che
si querela un pezzo, e alfine stride Ovidio — Me
cheronte, ……. Un fiume é questo Fangoso e torbo, e fa gorgo e vorago
Che
bolle e frange……. Virgilio — Eneide — Libro VI t
r per l’acqua verso noi in quella, Sotto il governo d’un sol galeoto,
Che
gridava : Or se’giunta, anima fella ! Flegiàs, Fl
vrai, se non passando tl loto. Quale colui che grande inganno ascolta
Che
gli sia fatto, e poi se ne rammarca, Tal si fe Fl
orelle. Or dunque alla tremenda Lachesi tosto il dio si volse, a lei
Che
il crin si vela di dorata benda, E chiese in quel
, a lei Che il crin si vela di dorata benda, E chiese in quel momento
Che
protendendo ambo le man, proceda De’ sempiterni D
Celeno, con l’ appellazione di Furiarum Maxima. Io son furia suprema
Che
annunzio a voi quel ch’ l gran Giove a Febo, E Fe
farebbe ad ogni grossa nave, Comincia a far sonar quello stromento ;
Che
allato avea di perforata trave : La fistula dà fu
. l’ aere con mentite penne Percuotendo, il figlinol d’ Ilio rapisce,
Che
di Giuno a dispetto, oggi pur anco Coppier di Gio
olo erboso. Spunta un flor che vince Di splendore la porpora di Tiro.
Che
tien de’gigli non diversa forma : Se non che ques
l’altro. Nè ciò basta a Febo ; (Tanto l’amico d’onorar gli piacque !)
Che
nelle foglie i suoi lamenti imprime : E doppio. u
ogo ove sorgeva la casa di Giano. Era mia residenza il vicin colle.
Che
dal min nome quest’età devota Gianicolo fin qui n
Palulcioe Clusivio o Clusio. Quindi Giano mi chiamo, il quale allora
Che
col farro al sal misto, e pan melato Posto sull’a
un tempo, dal pietoso arciero Tra Gïara e Micon fu stretta in guisa.
Che
immota e colta e consacrata a lui Ebbe poi le tem
. Ivi con segni e con parole ornate Isifale ingannò, la giovinetta.
Che
prima l’altre avea tutte ingannate. Lasciolla q
r sepolti i corpi scellerati, Dal molto sangue de’ suoi figli aspersa
Che
fatta fosse tiepida la Terra, È fama, e desse vit
o — Canto XXXI Gige — V. Gige — Briareo, …… S’esser puote, i vorrei
Che
dello smisurato Briareo Esperienza avesser gli oc
clopi — Polifemo — V. Galatea. Mostro orrendo, difforme e smisurato,
Che
avea come una grotta oscura in fronte In vece d’o
nchi trovaro nell’Egizio suolo, E presso al Nilo in sette rami sparto
Che
pur quivi il terrigeno Tifeo Gli perseguisse. Ov
o E nel decimo al fondo le sommerse : Orribil fondo d’ogni luce muto,
Che
da perpetui venti è combattuto. Monti — La Musog
i. Qui progenie divina Del tuono il Sire ottenne, Eaco in terra dio,
Che
le liti ai celesti anco partio. PINDARO — Odi Ism
se può mai l’altro dismuovere E atterrarlo, nè il puote il Telamonio,
Che
del rivale la gran forza il vieta. Gli Achei noja
si, ma non alzollo. Intanto L’altro gl’impaccia le ginocchia in guisa
Che
sossopra ambedue si riversaro E lordarsi di polve
e ; Per entro l’acque di Beota fonte Venere ad esse lo spirò nell’ora
Che
lasciarono andar l’irato dente Alle membra di Gla
o figlio Gorgïzon, cui d’Esima condotta Partori la gentil Castïanira,
Che
una Diva parea nella persona. Omero — Iliade — L
so prendere le armi contro di Apollo stesso. …… di quell’Ida io dico
Che
tra’guerrieri de’ suoi tempi il grido Di fortissi
o erge le braccia annose al cielo Un olmo opaco e grande, ove si dice
Che
s’annidano i Sogni, e ch’ogni fronda V’ ha la sua
i Erilo e Gerïone ; e con Medusa Le Gorgoni sorelle, e l’empie Arpie,
Che
son vergini insieme, augelli e cagne. Virgilio —
i palpando e carezzando ; e il bruno Epafo a lui partorirai tu quindi
Che
fia signor di quanto suolo irriga Il Nilo ampiofl
non sapendo. Indi rivolio Lo sguardo al mar, vedemmo un’onda enorme.
Che
tanto al ciel s’alzava, che la vista Delle Sciron
iuno pietosa, Iri dal cielo Mandò, che ’l groppo disciogliesse tosto,
Che
la tenea, malgrado anco di morte, Col suo mortal
rghi. Al girato Issïon le luci volse Di nuovo la Regina degli Dei :
Che
si ricorda quel che far le volse, Nel tempo che c
…. e le Dive sono i lor pastori Faetusa e Lampezie il crin ricciute
Che
partori d’ Iperione al figlio, Ninfe leggiadre, l
d’un sangue tal, d’un tanto Regno Restava una sua figlia unica erede,
Che
già d’anni matura, e di bellezza Più d’ogn’altra
a qual Testio ebbe per padre ; Giove in forma di Cigno oprò di sorte,
Che
d’ un uovo e tre figli la fè madre, Fra gli altrì
favolosa, alta come una montagna. Tocco ne avean il limitare appena,
Che
femmina trovar di si gran mole. Che rassembrava u
occo ne avean il limitare appena, Che femmina trovar di si gran mole.
Che
rassembrava una montagna ;…., Omero — Odissea —
o suo, che disegnò lor tosto Morte barbara e orrenda. Uno afferronne,
Che
gli fu cena ; Omero — Odissea — Libro X. trad. d
iganti alla vista. Immense pietre Cosi dai monti a fulminar si diero,
Che
d’uomini spiranti e infranti legni Sorse nel port
. Indurossi colui mentre solcava L’ aere leggiero : e come si ragiona
Che
ploggia a freddo soffio si rassodi, E in neve si
li il paese alberghi e nutra. Partiro, e s’affrontaro a quella gente,
Che
, lunge dal voler la vita loro. Il dolce loto a sa
urgatorio : « …………………al bosco « Si tenne Diana, ed Elice caccionne «
Che
di Venere avea sentito il tosco. » E nominò anch
sa nel C. xxxi del Paradiso : « Se i Barbari venendo da tal plaga, «
Che
ciascun giorno d’Elice si cuopra, « Rotante col s
n cinquanta volte fia raccesa « La faccia della Donna che qui regge «
Che
tu saprai quanto quell’arte pesa ; » ove apparis
ta Dea, che dagli antichi nostri « Debitamente sei detta Triforme : «
Che
in cielo, in terra e nell’ inferno mostri « L’alt
a : « Quale ne’plenilunii sereni « Trivia ride tra le ninfe eterne «
Che
dipingono il ciel per tutti i seni, ecc. (Parad.
elli ancora « ………..che fenno « L’antiche leggi e furon sì civili. »
Che
fossero un’impostura dei sacerdoti pagani non cre
romano e dal più insigne degli ultimi repubblicani dell’antica Roma.
Che
mi va dunque fantasticando Plutarco nel suo tratt
mento di più alta indagine, sul quale piacemi un poco di trattenermi.
Che
i più celebri Oracoli abbiano avuto origine nei t
to concetto si trovano d’accordo mitologi, poeti, storici e filosofi.
Che
più ? Lo stesso Machiavelli dice chiaramente e se
vel Apolline Delphos « Insignes, aut Thessala Tempe. » 284. «
Che
partorir letizia in su la lieta « Delfica deità d
ome mostrò già una ed altra fiata, « Atamante divenne tanto insano, «
Che
veggendo la moglie co’due figli « Andar carcata d
atrice) tal dentro mi fei « Qual si fe Glauco nel gustar dell’erba, «
Che
il fe consorto in mar cogli altri Dei »223. Pro
dì ch’han detto ai dolci amici addio. » (Purg., viii, 1.) 211. «
Che
di vederli in me stesso m’esalto. » (Inf., iv, 1
à d’Italia, dicendo che essa ordì « Una tela di cabale e d’inganni «
Che
fu tessuta poi per trecent’anni ; » ed eran prec
ia al pietoso pastore che piangeva al suo pianto : « oh fortunato, «
Che
un tempo conoscesti il male a prova, « Se non t’i
te s’adopra, acciocchè, senza esser conosciuta, non resti condannata.
Che
cosa ne anderà alle leggi che sono in vigore nel
timore, nè vergogna, nè tergiversazione, nè penitenza, nè doglianza ?
Che
sorta di male, dico, del quale il reo si allegra,
he si dolga di soffrire quel male, il quale fa prova della sua virtù.
Che
, se noi volessimo farla da nemici scoperti, non d
nare gli averi, laonde tra noi tutto è indiviso fuori che la moglie….
Che
maraviglia, se con tanta carità da noi si fanno d
oli prima di stendere i suoi rami di nuovo su tutte quelle reliquie ?
Che
lungo spazio di tempo non avrebbero impiegato a r
o prove assai speciose. 146. Vuolsi intendere nel Campidoglio. 147.
Che
prima erano idolatri. 148. Ai Cristiani si appon
si e ribellanti « Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremito, «
Che
ne trema la terra e n’urla il monte. « Ed ei lor
igli in casa ; ed ei congiunse « Per nodo marital suore e fratelli, «
Che
avean degli anni il più bel fior sul volto. « Cos
diverse di quei giorni. Quand’egli dice nel Canto xi dell’Inferno, «
Che
i Pesci guizzan su per l’orizzonta « E’l Carro tu
ti non li spengerebbero i più opposti e gagliardi venti, egli dice «
Che
son sicuri d’Aquilone e d’Austro, » nominando i
allor la maestosa il guardo « Veneranda Giunon : gran tempo è pure «
Che
da te nulla cerco e nullo chieggo, « E tu tranqui
pioggia, non grando, non neve, « Non rugiada, non brina più su cade «
Che
la scaletta de’ tre gradi breve ; « Nuvole spesse
e spesse non paíon, nè rade, « Nè corruscar, nè figlia di Taumante, «
Che
di là cangia sovente contrade. » Il nome d’Iride
all’altro come Iri da Iri « Parea reflesso, e il terzo parea fuoco «
Che
quinci e quindi egualmente si spiri. » (Parad.,
Canto xxiii dell’ Inferno : « Senza costringer degli angeli neri, «
Che
vengan d’esto fondo a dipartirci. » Nelle Belle
e inventivo, come : « E anch’io in quell’ardua immagine dell’arte «
Che
al genio è donna e figlia è di natura, « E in par
o geniali i letti nuziali, come nella seguente ottava del Canto v. «
Che
abominevol peste, che Megera « È venuta a turbar
abominevol peste, che Megera « È venuta a turbar gli umani petti ? «
Che
si sente il marito e la mogliera « Sempre garrir
Giudice e i Pescatori dice scherzevolmente : « Ci narrano i Poeti, «
Che
allorquando mancò l’età dell’oro « As’ rea fuggì
e caddero le spoglie ; « E si dice che sieno « Quelle vesti formali «
Che
adornano i Legali, « Che nelle Rote, ovver nei Pa
E si dice che sieno « Quelle vesti formali « Che adornano i Legali, «
Che
nelle Rote, ovver nei Parlamenti « Prendono il no
ome l’ecclisse o la cometa sia. « Vede la donna un’altra maraviglia «
Che
di leggier creduta non saria ; « Vede passare un
leggier creduta non saria ; « Vede passare un gran destriero alato «
Che
porta in aria un cavaliero armato. « Grandi eran
te l’altre membra parea quale « Era la madre, e chiamasi Ippogrifo, «
Che
nei monti Rifei vengon, ma rari, « Molto di là da
cerchio ove son puniti gli avari : « E la miseria dell’avaro Mida «
Che
seguì alla sua dimanda ingorda « Per la qual semp
omplet. 197. Tu puer œternus, gli dice Orazio invocandolo. 198.
Che
la parola corna in senso figurato, tanto in latin
così fatte « Non saran giammai per me : « Beverei prima il veleno, «
Che
un bicchier che fosse pieno « Dell’amaro e reo ca
, cioè per la Simonia a pretio : « O Simon Mago, o miseri seguaci, «
Che
le cose di Dio, che di bontate « Deono essere spo
ei, adorati dai Simoniaci. E non bastavano per saziar quella Lupa, «
Che
mai non empie la bramosa voglia, « E dopo il past
hi era ciascuna oscura e cava, « Pallida nella faccia e tanto scema «
Che
dall’ossa la pelle s’informava, cominciò a pensa
A sofferir tormenti e caldi e geli « Simili corpi la Virtù dispone «
Che
come sia non vuol che a noi si sveli. » E così c
ile virtù Beatrice intende « Per lo libero arbitrio ; e però guarda «
Che
l’abbi a mente, se a parlar ten prende. » (Purg.
saver tutto trascende, (cioè Dio) « Ordinò general ministra e duce «
Che
permutasse a tempo li ben vani « Di gente in gent
mmane guastator, che tenta « Uguagliarsi agli Dei. Ben io t’affermo «
Che
nè bellezza gli varrà nè forza « Nè quel divin su
ollo ! Oh foss’io morto « Sotto i colpi d’Ettorre, il più gagliardo «
Che
qui si crebbe ! Avria rapito un forte « D’un altr
ad udir quel ch’or si scocca. « Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, «
Che
se quello in serpente e questa in fonte « Conver
noi abitiamo, gli storici non sanno dire nulla di più nè di diverso.
Che
il nome di Cadmea fosse dato alla fortezza di Teb
XXII Marte « Marte superbo e fero «
Che
i cuori indura e serra » come dice il Petrarca,
che non fu già tutta plasmata da « ….quell’ingrato popolo maligno «
Che
discese di Fiesole ab antico « E tiene ancor del
rgete voi, che noi siam vermi, « Nati a formar l’angelica farfalla «
Che
vola alla giustizia senza schermi ? » (Purg., x,
Nell’ora, credo, che dell’orïente « Prima raggiò sul monte Citerèa, «
Che
di fuoco d’amor par sempre ardente, « Giovane e b
dra’ mi al tuo diletto legno, « E coronarmi allor di quelle foglie «
Che
la materia e tu mi farai degno. « Si rade volte,
rionfare o Cesare o poeta, « (Colpa e vergogna delle umane voglie), «
Che
partorir letizia in su la lieta « Delfica deità d
guerra mortal, disse, vi sfido. E’l disse in atto sì feroce ed empio,
Che
parve aprir di Giano il chiuso tempio. Questo te
dero corpi smisurati, molte braccia e quel soprapporre monti a monti.
Che
altro mai, dice Macrobio (3), furono i giganti ch
va, intorno agli omeri divini Pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,
Che
il Terror d’ogn’intorno incoronava. Ivi era la co
ighieri chiamasi Apollo, Delfica deità ; e l’alloro, fronda Peneia :
Che
partorir letizia in su la lieta Delfica Deità dov
Luna non era diversa da Diana. Niso, egli dice, volto inver la Luna,
Che
allora alto splendea, così la prega : Tu, Dea, tu
O santa Dea che dagli antichi nostri Debitamente sei detta triforme ;
Che
in cielo, in terra e nell’inferno mostri L’alta b
Giace in Arabia una valletta amena Lontana da cittadi e da villaggi,
Che
all’ ombra di due monti è tutta piena D’antichi a
tichi abeti e di robusti faggi. Il sole indarno il chiaro dì vi mena,
Che
non vi può mai penetrar coi raggi, Sì gli è la vi
un canto corpulento e grasso ; Dall’altro la Pigrizia in terra siede,
Che
non può andare, e mal si regge in piede. Lo smem
carpe di feltro e ’l mantel bruno, Ed a quanti n’incontra di lontano,
Che
non debban venir, cenna con mano. Luciano ancora
pria, dall’isola di Cipro, ove nacque ed era venerata. Dante disse :
Che
la bella Ciprigna il folle amore Raggiasse, volta
riosto il pianeta di Venere : Fra le più adorne non parea men bella,
Che
sia tra l’altre la ciprigna stella. Citerea, Κυ
ar Pentesilea le armate schiere De le Amazzoni sue, guerriera ardita
Che
succinta, e ristretta in fregio d’oro L’adusta ma
terra e il mar ratto trascorre Collo spiro dei venti. Indi la verga,
Che
dona e toglie a suo talento il sonno, Nella destr
rode messaggiero. Al piede S’avvinse i talar belli, aurei, immortali,
Che
sul mare il portavano, e su i campi Della terra i
he il vuole e li dissonua ancora. Con questa conducea l’alme chiamate
Che
stridendo il seguiano. E come appunto Vipistrelli
no fabbricatori di ferro, e li posero a ministri nella fucina di lui.
Che
i Ciclopi non avessero che un sol occhio in mezzo
l suo loquace nido. Ed altrove : Qual Progne si lamenta o Filomena.
Che
a cercar esca ai figliuoli ita era E trova il nid
come abbiamo osservato di sopra, le stimarono degne delle arti loro.
Che
più ? Quantunque la scienza astronomica ponesse l
re di quello che egli fa trovare ad Astolfo nel mondo della luna, « (
Che
più di trenta miglia intorno aggira), « O stupend
n tutte, come non è improbabile. Noi possiamo ritenere come certo: 1º
Che
quel grandioso corpo di narrazioni ed immagini on
identiche affatto alle Cariti, da cui n’ era stata tolta l’ idea. 3.
Che
queste Deità siano spesso menzionate dai poeti è
, Come mostrò una ed altra fiata, Atamante divenne tanto insano
Che
veggendo la moglie con due figli Andar carcata
Larentia; mentre l’ anime dei tristi si dicevan larvae o le lemures.
Che
gli antichi credessero alla presenza fra di loro
tate con vivaci colori e conforme all’ ultima forma della tradizione.
Che
anche l’ arte assai per tempo abbia fatto suo pro
laseiò Europa e i suoi figli alla custodia del re del luogo, Asterio.
Che
si abbia qui a fare con astri celesti divinizzati
versione di G. Mazzoni: Quando fu dentro all’ arca dedaléa,
Che
intorno la marina onda traéa E la furia del vento
inchiodato Di bronzo, fra le tenebre profonde, Nè ti curi de l’ onde
Che
ti passan su ’l capo inanellato, Nè ti curi del v
de l’ onde Che ti passan su ’l capo inanellato, Nè ti curi del vento
Che
urla; qui posandoti contento, Ne la porpora avvol
goscia mia che non ha pare. Zeus Padre, e tu deh muta il tuo talento!
Che
se nel voto temeraria io sono, Pel figlio mio con
componevano, cioè il Fuoco ossia la Luce, l’Aria, l’Acqua e la Terra.
Che
più ? anche la Notte, ossia l’oscurità, l’assenza
2. Il Monti fa dire ad Aristodemo, nella tragedia di questo nome : «
Che
l’uomo ambizioso è uom crudele. « Tra le sue mire
stuma boria dei loro parenti : « Largo ai pettegoli « Nani pomposi «
Che
si scialacquano « L’Apoteosi. « Dietro l’avello «
nte a questi primi Cristiani : « Vennermi poi parendo tanto santi, «
Che
quando Domizian li perseguette, « Senza mio lagri
e di Giovanni Daneo. 5. « Non però che altra cosa desse briga, «
Che
la notturna tenebra, ad ir suso : « Quella col no
ir la Gretteria « E la Trappoleria, « Appartenenti a una Mitologia «
Che
a conto del Governo a stare in briglia « Doma edu
ande altare, a cui vicino « Sorgea di molti e di molt’anni un lauro «
Che
co’rami all’altar facea tribuna, « E coll’ombra a
to dell’averli Ercole liberati da quel mostro dell’assassino Caco, «
Che
sotto il sasso di monte Aventino « Di sangue fece
questa notabilissima perifrasi : « E se licito m’è, o sommo Giove «
Che
fosti in terra per noi crucifisso, « Son li giust
pio, nel Canto xxx dell’Inferno, ove un dannato dice ad un altro : «
Che
s’io ho sete, e umor mi rinfarcia, « Tu hai l’ars
sangue e l’opere leggiadre « De’miei maggior mi fecer si arrogante, «
Che
non pensando alla comune madre, « Ogni uomo ebbi
ed a morire ciò non ostante di estenuazione e di tal disperazione «
Che
in sè medesmo si volgea co’denti. » Dante ramme
o o causa razionale o evidente. « Temer si deve sol di quelle cose «
Che
hanno potenza di fare altrui male : « Dell’altre
lfine. È questa una campagna « Con un aer più largo, e con la terra «
Che
d’un lume di porpora è vestita, « Ed ha ’l suo so
oppi, ed ondeggiando a scosse « Vibrano ad ora ad or luride fiamme, «
Che
van lambendo a scolorar le stelle ; « E talvolta
dunque su questo proposito ciò che ne scriveva il poeta Virgilio, «
Che
visse a Roma sotto il buono Augusto, » e che Dan
e, ragiona però bestialmente, come « …. Semiramis, di cui si legge «
Che
libito fe’licito in sua legge. » I Naturalisti d
, la terra, e ’l foco Deforme, il foco il Ciel, la terra, e ’l mare ;
Che
ivi era terra, e Cielo, e mare, e foco Dov’era, e
oi spumanti indomiti destrieri, Spiran foco, saette, e nembi orrendi,
Che
il Mondo d’evitar invan procura. Terribil questo
a tu l’orto mio, e ’l campicello Dalle trame di avaro, e rio vicino :
Che
ingordo ognor se d’usurpar pretende Parte de’ mie
nor de’ forti e de’ poeti ; Quella canna che fischia e quella scorza,
Che
ne’boschi Sabei lagrime suda, Nella sacra di Pind
li, Filosofare fu talento — Quale Amok si sia, nè pittor, ned altri,
Che
sculta immago a questo demon fece, Conoscer sembr
minar nell’ arme avvolto, Marte lo stimi ; Amor, se scopre il volto.
Che
bell’effetto e che forza aggiungono all’ espressi
onor de’ forti e de’ poeti, Quella canna che fischia, e quella scorza
Che
ne’ boschi Sabei lagrime suda ; Nella sacra di Pi
edesma, tua nemica in vista, Ma in segreto congiunta, a sè t’invita :
Che
non osando timida ai profani Tutta nuda mostrarsi
native dangers. “Charybdis barks, and Polyphemus roars.” Francis.
Che
′mos [Chemos]. The Moabitish god of war. Children
o portavasi da una Vestale sopra l’ altare entro un crivello di rame.
Che
se taluna delle Vestali violava il voto di vergin
ne avea la pelle d’oro, e la facoltà di parlare, e di alzarsi a volo.
Che
tale però fosse la pelle di quell’ animale, non o
possa avere qualunque Mitologica nozione, anche separatamente presa.
Che
se tra le Belle-Lettere alcune ve ne sono, il di
▲